Nel novembre 2005 la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica hanno approvato, a maggioranza assoluta, il disegno di legge costituzionale 2544-B, d'iniziativa governativa, recante "Modifiche alla parte II della Costituzione". Il disegno di legge, tuttavia, poiché non ha ottenuto il voto favorevole dei due terzi del Parlamento, non è ancora stato promulgato dal Presidente della Repubblica e non è, quindi, ancora entrato in vigore. Essendo stata presentata una richiesta di Referendum confermativo, la riforma costituzionale sarà promulgata ed entrerà in vigore solo se sarà approvata dalla maggioranza dei cittadini che decideranno di esprimersi, senza che sia necessario un quorum di votanti per rendere valida la consultazione.


Il testo si compone di 57 articoli che apportano significative modifiche alla 1) forma di governo, 2) alla struttura del Parlamento, 2) al procedimento di formazione delle leggi, 3) alle competenze delle Regioni e 4) ai poteri e alla struttura degli organi e degli istituti di garanzia.

La riforma della Costituzione, se fosse approvata, entrerebbe in vigore in tre tappe. Eleggibilità e immunità dei parlamentari, età per essere eletti Presidente della Repubblica, "devolution" e interesse nazionale: subito dopo il referendum. Senato federale, iter legislativo, nuovi poteri del Capo dello Stato e "premierato": dal 2011. L'ultima parte, quella riguardante la riduzione del numero dei parlamentari, dell'età per diventare deputati e della contestualità tra elezione del Senato federale e dei consigli regionali entrerebbe in vigore solo dal 2016.

Devolution

Questa riforma della Costituzione è stata propagandata sotto il nome di "devolution". Ma se col termine devoluzione si intende un processo di riduzione delle competenze di uno Stato e la loro contemporanea attribuzione alle Regioni e agli enti locali, bisogna riconoscere che, di tutto ciò, nella riforma non vi è traccia. Anzi, è vero il contrario: si tratta di un passo indietro rispetto alla riforma del titolo V della Costituzione realizzata nel 2001 dal centro sinistra. Molte delle competenze allora attribuite alle Regioni, con quest'ultima riforma ritornano allo Stato.

La riforma dell'articolo V della Costituzione, realizzata dal centrosinistra nel 2001, ha già apportato una modifica in senso "federalista" in quanto ha ampliato le competenze legislative delle Regioni. Tale riforma individua:
  • materie di competenza esclusiva dello Stato;
  • materie "concorrenti" (cioè di competenza sia dello Stato sia delle Regioni): lo Stato detta i principi fondamentali e le Regioni legiferano sulla base di questi;
  • materie di competenza esclusiva delle Regioni.

Attualmente lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
  • politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;
  • immigrazione;
  • rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
  • difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
  • moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie;
  • organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
  • ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
  • ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;
  • cittadinanza, stato civile e anagrafi;
  • giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
  • determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
  • norme generali sull'istruzione;
  • previdenza sociale;
  • legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;
  • dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
  • pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;
  • tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.

Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

La nuova riforma presentata dal centrodestra, contrariamente agli annunci propagandistici, che la spacciano per una riforma fortemente federalista, ricondurrebbe all'esclusiva competenza dello Stato molte materie che attualmente sono "concorrenti". Esse sono: grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione e di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; ordinamento della comunicazione; ordinamento delle professioni intellettuali; sicurezza del lavoro; ordinamento sportivo; norme generali sulla tutela della salute; sicurezza e qualità alimentari; produzione strategica, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia.

A tali materie il disegno di legge della nuova riforma aggiunge, tra le competenze esclusive dello Stato, la promozione internazionale del sistema economico produttivo nazionale, la politica monetaria, la tutela del credito e le organizzazioni comuni di mercato.

Alcune materie, viceversa, passerebbero ad essere di esclusiva competenza delle Regioni: l'assistenza e l'organizzazione sanitaria; l'organizzazione scolastica e la gestione degli istituti scolastici e di formazione; la definizione della parte dei programmi scolastici di interesse specifico della regione e la polizia amministrativa regionale e locale.

Pertanto l'istruzione, per quanto riguarda le "norme generali" è di competenza esclusiva dello Stato, ma la stessa materia appare anche tra quelle concorrenti e solo per quanto riguarda "l'organizzazione scolastica" e la "definizione della parte dei programmi scolastici e formativi" è di competenza esclusiva delle Regioni. Non molto dissimile è la situazione in materia di tutela della salute: resta di competenza esclusiva dello Stato la "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale".

È questa la parte della riforma che giustificherebbe l'appellativo di "devolution", se non fosse per il fatto che, in campo sanitario e scolastico, è comunque affidato allo Stato il compito di fissare i principi fondamentali a cui le Regioni devono attenersi nel legiferare. Non vi è, quindi, alcun cambiamento sostanziale rispetto all'assetto attuale, che già include sanità e istruzione tra le materie concorrenti. Semplicemente, l'autonomia di implementazione dei principi dettati dallo Stato passa ad essere esplicita, anziché implicita come è oggi.

Perciò la devolution non esiste e, anzi, con questa riforma tornerebbero ad essere esclusiva competenza dello Stato molte materie che adesso sono concorrenti. Unica concessione in senso federalista: l'attuazione pratica dei principi, dettati dallo Stato, su sanità ed educazione viene affidata esplicitamente (anziché implicitamente) alle Regioni.

Inoltre, la riforma introduce il concetto di interesse nazionale: una legge regionale, considerata dal Governo lesiva dell'interesse nazionale, può essere annullata dalla maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune. Infine lo Stato può legiferare al posto di Regioni o altri Enti locali nel caso di mancato rispetto di trattati internazionali o nel caso di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, o per tutelare l'unità giuridica o economica o i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (clausola di supremazia).

Allora a che è servito tutto il polverone sollevato intorno a questa riforma, tutto lo sforzo mediatico teso a farla apparire come una riforma profondamente federalista? Forse ad accontentare l'elettorato leghista e a far passare inosservato l'altro aspetto della riforma, quello che davvero costituisce un cambiamento profondo e pericoloso.

Una riforma profondamente antidemocratica

Parallelamente a quanto avviene per le materie di competenza regionale, a loro volta anche i poteri dello Stato subiscono un processo di accentramento, in questo caso nelle mani di una sola figura: il primo ministro. È questa la parte davvero importante e pericolosa della riforma, che introduce modifiche a:
  • struttura del Parlamento;
  • procedimento di formazione delle leggi;
  • forma di governo;
  • poteri e struttura degli organi e degli istituti di garanzia.

Struttura del Parlamento

Il progetto di riforma prevede:
che esso si componga della Camera dei deputati e del Senato federale della Repubblica;
che la Camera dei deputati sia composta da 518 (anziché, com'è attualmente, da 630) deputati, 18 dei quali eletti nella circoscrizione Estero, e dai deputati a vita (fino a 3);
che siano eleggibili alla carica di deputati tutti gli elettori che hanno compiuto i 21 (e non più i 25) anni di età;
che il Senato sia composto da 252 (anziché da 315) senatori eletti in ciascuna regione contestualmente all'elezione del rispettivo Consiglio regionale;
che ai 252 senatori eletti in ciascuna regione si affianchino 2 rappresentanti per ogni Regione e 2 per ciascuna provincia autonoma del Trentino Alto Adige, eletti rispettivamente dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali, per un totale di ulteriori 42 senatori i quali però "parteciperanno all'attività del Senato federale senza diritto di voto".

Il Senato è eletto su base regionale, cioè i suoi componenti sono eletti contestualmente alle elezioni dei consigli regionali e rimangono in carica fino all'elezione dei successivi.

Iter legislativo

Scompare il "bicameralismo perfetto", che attribuisce a Camera e Senato identiche competenze. Attualmente, per essere approvata, ogni legge deve ottenere il sì di entrambi i rami del Parlamento nella medesima formulazione. Invece la riforma stabilisce che le due Camere, la Camera dei Deputati e il Senato Federale della Repubblica, abbiano ciascuna con il proprio ambito legislativo:
  • la legislazione esclusiva dello Stato viene esercitata dalla Camera dei Deputati;
  • quella concorrente tra Stato e Regioni viene esercitata dal Senato Federale.

Le leggi a prevalenza della Camera sono quelle che la Camera dei deputati esamina per prima e sulle quali ha la decisione definitiva, mentre il Senato può, in sostanza, soltanto proporre modifiche. Le leggi a prevalenza del Senato presentano un iter rovesciato: la Camera può solo proporre delle modifiche, entro trenta giorni, e al Senato spetta decidere in via definitiva. Esse riguardano tutte le materie di competenza concorrente e dunque la definizione dei "principi fondamentali". Il Governo può, però, intervenire nell'ambito di questo procedimento e trasferire alla Camera l'approvazione finale di un testo di legge a prevalenza del Senato, quando tale testo sia in contrasto col programma di Governo.

Fanno eccezione le leggi relative ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e quelle relative alle funzioni fondamentali degli enti locali e ai sistemi di elezione delle due Camere, che sono invece di competenza bicamerale.

Forma di governo

Il Presidente del Consiglio dei Ministri prende il nome di Primo Ministro. Il progetto di riforma prevede che la candidatura alla carica di Primo ministro avvenga mediante collegamento con i candidati all'elezione della Camera dei deputati e che la legge disciplini l'elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro. Quindi, il popolo eleggerebbe in modo diretto il Primo Ministro ed una maggioranza parlamentare a lui collegata e il Presidente della Repubblica incaricherebbe automaticamente il vincitore delle elezioni.

Il testo prevede che il Primo ministro si presenti alla sola Camera (e non più, come accade oggi, anche davanti al Senato) per esporre il proprio "programma di legislatura" e che a tale esposizione faccia seguito un voto di approvazione della Camera (sul solo programma e non anche sulla composizione del governo, come avviene attualmente).

In tema di forma di governo, però, il tratto più pericoloso, quello che caratterizza maggiormente il progetto di riforma, non concerne tanto il procedimento di formazione dell'Esecutivo quanto piuttosto il suo rapporto con il Legislativo. La separazione tra potere Esecutivo e potere Legislativo (e potere Giudiziario) è un requisito fondamentale della democrazia moderna. La riforma interviene su tale separazione, concedendo al potere Esecutivo (esercitato dal governo) la prerogativa di influire direttamente su quello Legislativo (esercitato dal Parlamento). In questo senso le disposizioni più significative sono, senza dubbio, quelle volte a garantire la durata dell'Esecutivo per l'intera legislatura e quelle che disciplinano i poteri del governo in Parlamento. Scopo della riforma è garantire la stabilità dell'Esecutivo, evitare le crisi di governo e i cosiddetti "ribaltoni", riducendo a questo scopo il potere del Parlamento e del Presidente della Repubblica.

Pertanto la riforma prevede che il Presidente della Repubblica debba decretare lo scioglimento anticipato della Camera in caso di dimissioni volontarie del primo ministro, nonché in caso di sua morte, impedimento personale o di voto di sfiducia. E che, in tutte queste ipotesi, lo scioglimento possa essere evitato solo se la Camera approva una mozione contenente l'indicazione di un nuovo primo ministro oppure se tale approvazione avviene da parte dei deputati che componevano la maggioranza parlamentare iniziale.

In caso contrario si va allo scioglimento della Camera e, quindi, a nuove elezioni. I parlamentari di opposizione non possono fare nulla, né per sostenere il primo Ministro uscente né per indicare un suo sostituto ed evitare le elezioni anticipate. La crisi di governo può essere superata all'interno della legislatura solo se la maggioranza, uscita dalle elezioni, che sostiene l'Esecutivo rimane immutata, o comunque solo se essa continua ad essere in grado di garantire al nuovo governo il sostegno della metà più uno dei membri della Camera. In tutti gli altri casi la Camera si scioglie e si va a elezioni anticipate.

Ciò significa che il Primo Ministro, se potrà contare sulla fedeltà di un gruppo di deputati corrispondente (perlomeno) al differenziale tra la maggioranza iniziale e la maggioranza assoluta, disporrà, in sostanza, del potere di scioglimento della Camera.

Ad esempio:
membri della Camera 518
maggioranza parlamentare necessaria per avere la fiducia = 518/2 + 1 = 260
maggioranza parlamentare che sostiene l'attuale Primo Ministro 300
maggioranza parlamentare necessaria per sostituire Primo Ministro 260

Questi 260 deputati che vogliono un nuovo premier devono necessariamente fare parte della stessa maggioranza che sostiene il premier sfiduciato e quindi è sufficiente che un gruppo di 41 (300-260+1) fedelissimi dell'attuale Primo Ministro lo sostengano e non sarà possibile approvare alcuna mozione di sfiducia "costruttiva" che ne designi uno nuovo evitando le elezioni anticipate. Ciò anche se tutti i rimanenti 478 deputati (tra opposizione e maggioranza) fossero d'accordo sul nome di un nuovo Primo Ministro.

Rispetto alla disciplina oggi vigente, il rapporto tra Governo e Parlamento viene capovolto: non è più il Parlamento che può, in ultima analisi, decidere della durata sua e del Governo, ma è il Governo che può, in ultima analisi, decidere della durata sua e del Parlamento.

Il rafforzamento della posizione dell'esecutivo nei confronti del Parlamento emerge anche dalle disposizioni che disciplinano l'iter legislativo. Infatti, come già visto sopra, la riforma attribuisce al Governo la possibilità di chiedere al Presidente della Repubblica l'autorizzazione a dichiarare che un disegno di legge, all'esame del Senato, è essenziale per la realizzazione del suo programma, con la conseguenza che, se quest'ultimo non accoglie (entro trenta giorni) le modifiche proposte dal Governo, il disegno di legge viene trasmesso alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta. Il Senato, al quale la riforma attribuisce la competenza ad approvare le cosiddette "leggi cornice", a seguito di una decisione del Governo, "certificata" dal Presidente della Repubblica (che in tal modo, peraltro, viene impropriamente coinvolto in una valutazione di carattere squisitamente politico) può dunque vedersi sottratta qualsiasi attribuzione. Ciò significa che di fatto, al di là delle disposizioni che definiscono in via generale le competenze delle due Camere e i relativi procedimenti che esse dovranno seguire, sarà il Governo a decidere come e da chi un disegno di legge dovrà essere approvato.

Poteri e struttura degli organi e degli istituti di garanzia

Coerentemente con tutto il suo impianto, volto ad accentrare il potere nelle mani del "premier", la riforma prevede la riduzione dell'autonomia e dei poteri di due importantissimi istituti di garanzia democratica: la Corte Costituzionale e il Presidente della Repubblica.

Corte Costituzionale

Il numero complessivo dei giudici è previsto che rimanga di quindici, così come prescrive la Costituzione vigente. Non è, però, più previsto che essi siano nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative, come avviene adesso. Al Presidente della Repubblica e alle supreme magistrature spetterà solo la nomina di quattro giudici, anziché di cinque, mentre al Parlamento spetterà l'elezione di sette componenti. Inoltre, l'elezione non avverrà più ad opera del Parlamento in seduta comune: è infatti previsto che tre giudici siano eletti dalla Camera dei deputati e quattro dal Senato federale.

Quindi la riforma si propone di incrementare il numero dei giudici di nomina parlamentare. Un incremento che potrebbe alterare un equilibrio delicatissimo tra competenza tecnico-giuridica e sensibilità politica che potrebbe aumentare il rischio di ingerenze politiche all'interno di questo fondamentale organo di giustizia costituzionale.

Presidente della Repubblica

Molto rilevanti sono anche le modifiche che vengono ipotizzate alle funzioni del Presidente della Repubblica. A fronte di un accrescimento dei poteri del premier e, in particolare, della maggioranza "espressa dalle elezioni" è, innanzitutto, previsto che il Capo dello Stato perda sia il potere di scioglimento del Parlamento, sia il potere di nomina del governo. Quando il Primo ministro richiede lo scioglimento della Camera dei deputati e la maggioranza espressa dalle elezioni, nei venti giorni successivi, non approva una mozione nella quale dichiari di voler continuare nell'attuazione del programma, designando un nuovo Primo ministro, il Presidente della Repubblica è tenuto a decretare lo scioglimento della Camera. Egli non dispone più di alcun potere di valutazione discrezionale, né può più, di conseguenza, contrastare un eventuale uso eccessivamente politico dello scioglimento.

In maniera analoga, ai sensi del nuovo art.92, è previsto che il Presidente della Repubblica non disponga più di alcun potere di valutazione discrezionale, in funzione di garanzia, nella individuazione del Primo ministro; egli deve procedere alla nomina di quest'ultimo sulla base dei risultati delle elezioni. Nel contempo, tuttavia, il Presidente della Repubblica conserva un ruolo decisivo nel consentire al Governo di superare l'opposizione del Senato all'approvazione di un disegno di legge governativo (approvato dalla Camera dei deputati) nelle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni. Se da un lato, quindi, si indebolisce il Presidente della Repubblica nel rapporto con il Primo ministro e la maggioranza espressa dalle elezioni, dall'altro lo si coinvolge direttamente nella lotta politica chiamandolo a fare da arbitro dell'eventuale scontro tra Senato e Governo.

Sintesi

La riforma della Costituzione attuata dal governo Berlusconi è stata propagandata sotto il nome di "devolution". Ma se col termine devoluzione si intende un processo di riduzione delle competenze di uno Stato e la loro contemporanea attribuzione alle Regioni e agli enti locali, bisogna riconoscere che, di tutto ciò, nella riforma non vi è traccia. Anzi, è vero il contrario: si tratta di un passo indietro rispetto alla riforma del titolo V della Costituzione realizzata nel 2001 dal centro sinistra. Molte delle competenze allora attribuite alle Regioni, con quest'ultima riforma ritornano allo Stato; mentre si introduce un non meglio definito "interesse nazionale", in difesa del quale gli atti degli enti locali e le leggi emanate dalle Regioni possono venire annullati dal Parlamento.

La verità è che questa riforma, spacciata come un importante avanzamento nella direzione del decentramento, altro non è se non una manovra di accentramento di poteri da parte dello Stato. A loro volta, i poteri dello Stato subiscono un processo parallelo di accentramento, in questo caso nelle mani di una sola figura: il primo ministro. È questa la parte davvero importante e pericolosa della riforma.

Una riforma fortemente antidemocratica

La sostanza della riforma consiste in un enorme aumento del potere del Presidente del Consiglio dei Ministri (che nel nuovo testo si chiama, infatti, primo ministro).

Il Parlamento viene ridotto a una sola Camera, quella dei deputati, unica a legiferare sulle materie di competenza esclusiva dello Stato; il Senato federale ha competenza soltanto per le materie a legislazione "concorrente", cioè non proprie dello Stato centrale e non proprie delle Regioni. Nondimeno, il governo può imporre a disegni di legge del Senato le modifiche che risultino essenziali alla realizzazione del proprio programma.

Il primo ministro non ha più bisogno della fiducia delle Camere per insediarsi, la sua legittimazione avviene al momento dell'elezione: il capo dello Stato nomina automaticamente primo ministro il candidato della coalizione vincente. Si tratta, in pratica, di un'elezione diretta. In virtù di una legittimazione venuta direttamente dal popolo, al primo ministro sono conferiti enormi poteri, a scapito degli altri membri del Parlamento (anch'essi eletti dal popolo!) e dello stesso Presidente della Repubblica.

Il primo ministro ha il potere di revoca dei ministri e di scioglimento della Camera (che finora era prerogativa del Presidente della Repubblica). La Camera a sua volta può sfiduciare il primo ministro, ma in questo modo essa viene automaticamente sciolta e si va a elezioni anticipate. Quindi, il primo ministro ha il controllo diretto della Camera; in questo modo cade il principio della separazione del potere legislativo da quello esecutivo, pilastro della democrazia moderna.

Inoltre aumenta il controllo del potere politico sulla Corte Costituzionale. Infatti aumentano i membri di nomina parlamentare, mentre diminuiscono quelli nominati dalla magistratura e dal Presidente della Repubblica.
Infine, ricordiamo che la proposta di leggi di iniziativa popolare smette di essere un diritto costituzionale; a ulteriore conferma dell'intenzione che ha mosso gli autori di questa riforma profondamente antidemocratica.

Anziché avanzare, come sarebbe giusto, nella direzione del decentramento del potere e della democrazia reale, partecipativa, siamo in presenza del tentativo di cancellare anche quel poco di democrazia, limitata e formale, di cui godiamo oggi.

Impediamo questo slittamento in senso autoritario delle nostre istituzioni dicendo NO alla riforma costituzionale.

Ma non fermiamoci qui: continuiamo a costruire e a fare pressione perché aumentino gli spazi di partecipazione e si vada verso la creazione di una democrazia partecipativa, in cui i cittadini siano autenticamente coinvolti nella gestione della cosa comune e nelle scelte che li riguardano.

Al Referendum per l'approvazione della Riforma della costituzione
votiamo e facciamo votare NO

Perché vogliamo avanzare dalla democrazia formale verso la democrazia reale e non, al contrario, retrocedere verso l'autoritarismo.

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