Nelle ultime settimane si è parlato molto della missione italiana in Afghanistan e discusso all'infinito se sia giusto o no rifinanziarla. Come umanisti, la nostra posizione è chiara: checché ne dica il governo, questa non è una missione di pace sotto l'egida dell'ONU, giacché nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza ha mai autorizzato la Nato ad assumere il comando dell'Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) in Afghanistan. Eppure dall'agosto 2003 a guidare la missione non è più l'ONU ma la Nato, ossia di fatto il Pentagono. La nostra presenza in Afghanistan rappresenta un servile adeguamento alla politica terrorista degli Stati Uniti, capaci solo di rispondere con invasioni, massacri, bombe e torture alla violenza altrettanto bestiale dei terroristi.

Restare in Afghanistan significa assecondare le favole della "caccia a Bin Laden" o del "riportare la democrazia dove prima c'erano i burqua", quando sappiamo benissimo che l'Afghanistan costituisce un territorio strategico per gli interessi degli Stati Uniti. Rifinanziare la missione significa infine continuare a violare l'articolo 11 della Costituzione, che afferma chiaramente il ripudio della guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali, anche quando questa viene travestita da "missione umanitaria."

Qui però non si tratta solo di una questione di politica interna, o di una disputa tra le varie anime della sinistra italiana. La questione è più ampia e investe temi di enorme importanza e gravità come il disarmo e la necessità di una vera politica estera di pace, in alternativa a quella imperialista degli Stati Uniti.

Alcuni dati possono aiutare a capire la posta in gioco.

  • La guerra è un grande business: le esportazioni di armi rappresentano un giro d'affari di 21 miliardi di dollari all'anno e i maggiori produttori ed esportatori di armi leggere sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu (Usa, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna).
  • Negli ultimi dieci anni la spesa militare mondiale è aumentata del 2,4 % l'anno, raggiungendo nel 2005 l'incredibile cifra di 1.120 miliardi di dollari.
  • Moltissimi paesi hanno sostenuto le invasioni statunitensi in Afghanistan e Iraq. Non sono sempre gli stessi (per es. la Germania e la Francia hanno mandato truppe in Afghanistan, ma non in Iraq e la Spagna le ha ritirate dall'Iraq per mandarle in Afghanistan), ma la sostanziale sottomissione alla politica USA è evidente. In Iraq la cosiddetta "Coalizione dei volenterosi" che ha appoggiato l'invasione americana nel 2003 era composta all'inizio da 52 paesi, molti dei quali hanno poi ritirato le truppe per la pressione dell'opinione pubblica contraria alla guerra. Meno noto è il caso dell'Afghanistan, dove 35 paesi hanno mandato truppe o in qualche modo sostenuto l'invasione.
  • La Nato si muove al di fuori degli accordi del Trattato di Non Proliferazione Nucleare, violandoli apertamente. Gli Stati Uniti hanno dislocato 480 bombe in otto basi aeree di sei paesi Nato europei.
  • In tutto il pianeta rimangono 30.000 testate nucleari, sufficienti a distruggerlo per intero 25 volte.

Di fronte a dati spaventosi come questi, è evidente che qui non si tratta semplicemente di sganciarsi da una singola missione militare, ma di impostare una politica estera che vada in direzione opposta a quella seguita finora. Questo non può essere uno sforzo individuale di un paese, ma come minimo dovrebbe diventare la direzione imboccata da tutta l'Europa. Stiamo parlando di una politica estera basata sul ripudio della guerra come mezzo per risolvere i conflitti internazionali e sul riconoscimento della pace come diritto fondamentale di popoli e individui.

Una politica estera che preveda:
  • l'uscita dalla Nato, in quanto chiaro strumento della politica imperialista statunitense;
  • il ritiro di tutti gli eserciti invasori dai territori occupati;
  • la ricerca del dialogo e della mediazione diplomatica per risolvere i conflitti;
  • il disarmo progressivo;
  • la riconversione dell'industria bellica.

Può sembrare una "mission impossibile", ma è inutile ingannarsi: questa è la posta in gioco. E l'unica forma per imporre questa agenda ai governi, anche "amici", consiste nella costruzione di un'alternativa non prevista nel copione dei potenti. Un'alternativa basata sul rafforzamento dei vincoli tra i popoli, l'appoggio reciproco, la solidarietà, la sensibilizzazione dell'opinione pubblica, la mobilitazione e la pressione su coloro che pretendono di decidere il destino di tutti.

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