Per quanto riguarda l'Unione Europea, la sua condotta non ha contribuito, finora, a dipanare la "matassa nucleare". Anzi, soprattutto negli ultimi anni, l'UE ha perso più di un'occasione per interpretare il ruolo che storicamente e culturalmente le spetterebbe: quello di una regione del mondo che, dopo il massacro della seconda guerra mondiale e l'abisso nazi-fascista in cui era caduta, ha compreso che con l'aggressione militare e la violenza armata non si arriva da nessuna parte. Gli europei, invece, senza mai proporre una propria agenda, si sono solo preoccupati di rassicurare il loro partner statunitense – che evidentemente non ha ancora capito l'inutilità della violenza bellica - sulla convergenza dei cosiddetti "comuni interessi di sicurezza".

Il caso dell'Iran rappresenta un buon esempio del ruolo subalterno dell'Europa, che si accontenta di interpretare la figura del "poliziotto buono", che affianca la figura del "poliziotto cattivo" interpretata dagli Usa. Il terzetto costituito da Germania, Francia e Regno Unito, pur lavorando con un buon grado di pazienza, nelle trattative con l'Iran usa, in sostanza, gli stessi strumenti americani, cioè una diplomazia che fa intravedere la costante presenza delle minacce di sanzioni e dell'uso della forza, con l'unico obiettivo di impedire ad uno stato, giudicato ostile, di portare avanti un qualsiasi ciclo nucleare autonomo, sia pure per usi civili.

Nel dicembre 2003, l'Unione Europea elabora un testo intitolato: "Strategia dell'UE contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa". Anche se, a parole, si prediligono innanzitutto azioni non militari per la lotta contro la proliferazione delle armi nucleari, in particolare privilegiando il dialogo politico e il rispetto dei trattati internazionali, il testo prevede anche, però, che "qualora fallissero le misure preventive, si possa passare a misure coercitive nel quadro del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale (sanzioni, selettive o globali, intercettazione di importazioni e, se necessario, ricorso alla forza)". Questo documento, guarda caso, viene redatto a distanza di solo qualche mese dal vertice bilaterale euro-americano del 25 giugno 2003, a Washington, alla fine del quale è stata adottata una dichiarazione comune degli Stati Uniti e dell'UE, con la quale i firmatari s'impegnano a "utilizzare tutti i mezzi di cui dispongono per evitare la proliferazione delle armi di distruzione di massa e le sue disastrose conseguenze".

Le tappe successive seguono un copione noiosamente ripetitivo. Germania, Francia e Regno Unito, il 15 novembre 2004 a Parigi, firmano con l'Iran un accordo secondo il quale mentre gli iraniani devono "fornire garanzie obiettive che il loro programma nucleare ha una finalità strettamente civile", gli europei devono dare "solide garanzie relative a una cooperazione nucleare, tecnologica ed economica e seri impegni nel campo della sicurezza". Ma, nell'agosto 2005, gli europei propongono al nuovo presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad un accordo in cui i pesi sui piatti della bilancia non sono più uguali tra loro. Le promesse dell'Unione Europea sono – anche se nell'ambito di una prosecuzione del dialogo e della possibilità di cooperazione in molti settori - molto vaghe, mentre le richieste nei confronti dell'Iran sono molto più circostanziate e pesanti: Tehran deve abbandonare definitivamente le attività di arricchimento e ritrattamento dell'uranio, senza ricevere alcuna garanzia in merito alla possibilità di ottenere, fuori dalle sue frontiere, il combustibile nucleare necessario allo sviluppo del programma nucleare civile.

D'altra parte l'Europa, così acriticamente allineata sulle posizioni di Washington e di Tel Aviv, non può assolutamente garantire alcunché. Non può offrire compensazioni significative, tali da modificare gli obiettivi di Teheran e rendere possibile un compromesso. Come può garantire, per esempio, che l'Iran sia al riparo da qualsiasi "colpo di mano", se la regione mediorientale è oggi l'area più instabile del mondo anche per la presenza di un paese, come Israele, che non ha firmato il trattato di non proliferazione e detiene - al di fuori di qualsiasi controllo - duecento testate nucleari?
 
Purtroppo le responsabilità dell'Europa non finiscono qui. Mentre si moltiplicano le pressioni sull'Iran, perché abbandoni il programma di arricchimento dell'uranio, il presidente francese Jacques Chirac, all'inizio del 2006, negozia a Nuova Delhi la possibilità di una cooperazione nucleare con l'India.
Due delle nazioni più influenti sulla politica europea, Francia e Regno Unito, che fanno anche parte della ristretta cerchia dei 5 stati autorizzati dal TNP ad essere dotati dell'arma nucleare, ormai non escludono più il ricorso all'uso dell'arma nucleare, anche se ufficialmente assicurano che niente è cambiato per quanto riguarda la politica di dissuasione, e che l'eventualità nucleare si riferisce esclusivamente ad una situazione di "crisi internazionale molto grave in cui fosse minacciata la capacità stessa del proprio paese di agire".

Se verrà il giorno in cui l'Unione Europea farà la scelta di una difesa comune a tutti i livelli, quale sarà il contributo del nucleare alla difesa europea?
Una cosa è certa: l'estensione del ruolo delle armi nucleari, proposta dalla Francia e dal Regno Unito, indebolisce gli argomenti usati dagli europei per contestare a paesi come l'Iran il diritto di dotarsi di tali armi.

Come si può pretendere di proibire ad altri, salvo rinuncia volontaria da parte loro, ciò che si consente a se stessi? I cinque stati dotati dell'arma nucleare - Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Cina e Francia - non hanno affatto l'intenzione di rinunciare a quelle capacità militari che conferiscono loro una posizione privilegiata nella società internazionale e che permettono loro di bloccare qualsiasi minaccia ai propri interessi vitali. Per scongiurare l'allargamento di questo ristretto "club nucleare", essi fanno di tutto per consolidare il TNP, con accordi grazie ai quali gli stati non dotati di armi nucleari si impegnano a rinunciarvi, in cambio della certezza di poter utilizzare l'energia nucleare a fini pacifici. Ma la domanda rimane sempre la stessa: come si può pretendere la rinuncia nucleare degli uni, se non c'è un preciso impegno degli altri a portare avanti un programma di disarmo?

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