Il 1° maggio nasce il 20 luglio 1889, a Parigi. A lanciare l'idea è il congresso della Seconda Internazionale, riunito in quei giorni nella capitale francese: "Una grande manifestazione sarà organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del Congresso di Parigi". Si tratta di un passato ormai veramente remoto e di una ricorrenza che per tutto il ventesimo secolo è stata il simbolo di tutte le battaglie vinte dai popoli per contrastare lo sfruttamento e l’oppressione del capitale e dei regimi totalitari.
Purtroppo negli ultimi anni abbiamo vissuto un processo di destrutturazione in cui le garanzie e le certezze che sembravano acquisite si sono disciolte come neve al sole: le forze progressiste che avevano spinto verso i grandi avanzamenti nella condizione sociale del XX secolo sono entrate in crisi e purtroppo le vecchie strutture di potere hanno retto meglio. Così oggi siamo tornati in un mondo per molti aspetti molto simile a quello dell’800 se non addirittura peggiore in quanto a violenza e disprezzo dei diritti degli esseri umani.
Abbiamo illuso i nostri figli facendogli credere di essere in un mondo civile in cui vivere dignitosamente. La verità è che oggi come oggi ci sono larghe fasce della popolazione che sono trattate come se si trattasse di intrusi! I lavoratori precari sono sfruttati e condannati a una vera e propria “precarietà a vita”.
Negli ultimi cinque anni i lavoratori precari i in Italia sono aumentati del 16,9% e lavorano soprattutto nel Sud del paese […] Alla fine del mese di settembre [del 2008] i lavoratori precari hanno raggiunto quota 2.812.700 e rappresentano oggi il 12% del totale degli occupati in Italia. Dal 2004 al settembre scorso sono aumentati del 16,9%: ben 5 volte di più dell’incremento registrato dai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato che sono cresciuti, nello stesso periodo, del 3,1%. (Fonte: Fonte CGIA di Mestre su La Stampa.it)
Si lavora in condizioni di sicurezza che si potrebbero definire ridicole se non portassero a tragedie. Siamo di fronte a una vera strage combattuta in nome del “risparmio”, con la scusa che rispettando davvero le norme sulla sicurezza le aziende non sarebbero competitive.
Le conseguenze di questo risparmio? I morti sul lavoro nel 2007 sono stati circa 1.260 e gli infortuni 913.500. […]. Nel 2006 in oltre sette aziende su 100 del settore dell’industria e dei servizi si è verificato almeno un incidente. (Fonte: INAIL)
Molti lavoratori immigrati, non potendosi regolarizzare nonostante rispondano a tutti i requisiti necessari, rimangono in una condizione di ricattabilità totale; per non parlare di quelli regolari il cui diritto di residenza dipende unicamente dal fatto di avere il posto di lavoro in una logica perversa in cui il licenziamento equivale più o meno all’espulsione dal nostro paese! Mi sembra che questa si può definire veramente una nuova forma di schiavitù!
Sorprende non poco che molti inizino da regolari la loro storia migratoria e finiscano nella irregolarità, per la complessità e la contraddittorietà di alcuni aspetti della normativa. (Fonte: Caritas Migrantes Dossier 2008).
Tutto il genere femminile è ancora fortemente discriminato e messo da parte.
Le donne “instabili” rappresentano circa il 19% dell’occupazione totale femminile (occupate + non occupate instabili) mentre lo stesso rapporto calcolato per gli uomini è uguale a poco più dell’11%. L’instabilità del lavoro giovanile si afferma come elemento strutturale del mercato ma interessa più le donne che gli uomini: più della metà delle ragazze occupate di età compresa tra 15 e 24 anni e più di un quarto ( 25,7%) delle giovani donne occupate (25-34 anni) svolge un lavoro instabile (gli stessi rapporti calcolati per gli uomini sono 39,7% e 15,5% rispettivamente). (Fonte: IRES 3° Rapporto Osservatorio Permanente sul lavoro Atipico)
I giovani, le donne, gli immigrati sono troppo spesso messi nella condizione di vivere il posto di lavoro, pur precario, pur malpagato, pur non sicuro addirittura dal punto di vista dell’incolumità fisica, quasi come se fosse un privilegio, qualcosa che gli viene concesso in modo paternalistico dall’alto, che è già tanto se hanno questo! “Se non ti va bene fuori c’è la fila di gente che pagherebbe per avere questo posto!”. Questa è la frase odiosa che troppe volte viene ripetuta quando qualcuno, semplicemente chiede che siano garantiti i propri diritti. Questo è l’atteggiamento che porta alle tragedie a cui abbiamo dovuto assistere in questi anni.
I dati macroeconomici con cui si parla di fantomatiche riprese dell’economia e di aumento del benessere non tengono conto del fatto che c’è una forbice spaventosa, una sproporzione mostruosa tra chi ha tanto e chi non ha niente: Negli ultimi anni in Italia si è pesantemente aggravato il divario tra ricchi e poveri. Secondo il rapporto dell'Ocse Growing Unequal?, che analizza la distribuzione del reddito e la povertà all'interno dei 30 Paesi che compongono l'organizzazione, l'Italia è infatti al sesto posto per il gap tra le classi sociali, dopo Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti e Polonia (Fonte: La Repubblica). Con il compenso dei primi 100 Top manager italiani si possono pagare infatti i salari di 10.000 lavoratori (Fonte IRES CGIL Salari in crisi: Salari, produttività e distribuzione del reddito - IV rapporto IRES-CGIL 2007-2008 - 27 marzo 2009).
Di fronte a tutto questo è veramente urgente che tutti noi ci svegliamo dal torpore della finta sicurezza che ci era stata promessa dalle sirene del liberismo e che ci rendiamo veramente conto che le battaglie combattute nel secolo scorso, da quegli esseri umani coraggiosi che sono riusciti attraverso le Nazioni Unite a produrre un documento avanzato come la Dichiarazione universale dei diritti umani e che sono riusciti a farla ratificare da moltissimi stati, non sono ancora state vinte definitivamente: oggi più che mai devono essere combattute per mezzo della nonviolenza attiva con l’azione, il coraggio e l’intelligenza di tutti.
Dove sono finite le risorse che potrebbero permettere l’uscita da questa situazione? Le risorse più ingenti di capitale, oltre che nella speculazione finanziaria diretta che non produce nulla se non povertà, sono oggi investite nell’Industria Bellica, che garantisce agli stessi speculatori un’alta redditività attraverso la produzione di strumenti di morte. Si stima che a livello globale la spesa militare nel 2007 sia stata di 1339 miliardi di dollari - con un aumento in termini assoluti del 6 per cento rispetto al 2006 e del 45 per cento dal 1998. [...] L’Italia nel 2007 era al nono posto nella classifica della spesa militare con 31 miliardi di dollari. (Fonte: Sipri Yearbook 2008).
Il governo Italiano in questo momento di crisi ha deciso di investire 17 miliardi di dollari per dotarsi di una flotta di caccia F-35 (Fonte PeaceReporter).
Il vero investimento per la sicurezza deve essere quello della riconversione immediata dell’industria bellica verso attività produttive che non solo possono generare un numero maggiore posti di lavoro, ma soprattutto che producano un circolo virtuoso di rilancio di tutto il sistema economico. In questo momento c’è bisogno di investire nelle fonti energetiche rinnovabili, nella ricerca per la salute, in misure per la sicurezza sul lavoro e in tutti quei settori che possano dare un contributo reale alla qualità della vita e al benessere delle popolazioni.
È anche urgente la creazione di norme internazionali che impediscano le mostruose speculazioni improduttive che hanno prodotto la crisi di oggi e un cambio di paradigma sociale ed economico che riporti il potere ai popoli attraverso una democrazia reale e partecipativa.
Viviamo da troppi anni in un mondo in cui sono istituzioni bancarie come Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale a dire ai governi quali politiche devono portare avanti. Questo è inaccettabile: è una dittatura di poteri e interessi che non hanno nulla di democratico e che hanno dimostrato ampiamente di riuscire a produrre solo disastri. Non possiamo più accettare un sistema economico - finanziario che sottrae risorse ai piccoli o grandi risparmiatori per permettere grandi speculazioni e guadagni insensati ai manager che le gestiscono. E questo mentre diviene impossibile accedere al credito a chi semplicemente vuole aprire un’attività produttiva o vuole continuare a lavorare.
Infine, quando parliamo di attività produttive e non speculative, è necessario proporre un nuovo modello di azienda in cui ci sia la partecipazione dei lavoratori innanzitutto alle decisioni, ma anche alla proprietà dell’azienda stessa man mano che si espande, cercando di trovare nuove logiche che possano essere vantaggiose sia per i lavoratori che per quegli imprenditori che scelgono di investire il proprio capitale e il proprio lavoro in attività veramente produttive e necessarie per l’insieme umano.