La situazione attuale e, soprattutto, ciò che è successo finora non aiuta a guardare con ottimismo la conferenza Onu che in questi giorni dovrebbe rilanciare gli obiettivi del millennio in tema di fame e povertà nel mondo.
Questi obiettivi, lanciati 10 anni fa e con scadenza nel 2015, riguardavano lo sradicamento della povertà estrema e della fame, la promozione dell’uguaglianza tra i sessi, un’istruzione elementare per tutti, il miglioramento della salute materna e la riduzione della mortalità infantile, la lotta all’Aids, al paludismo e ad altre malattie, la preservazione dell’ambiente.
Qual è la situazione a cinque anni dalla scadenza di questi obiettivi?

Un sesto della popolazione mondiale, cioè più di un miliardo di persone, soffre la fame e ogni giorno circa 22mila bambini muoiono di fame.
Circa un miliardo e mezzo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno.
Aumenta il lavoro precario e sottopagato, mentre continua ad allargarsi il divario tra uomini e donne in quanto a parità.
Aumentano i prezzi dei generi alimentari di base.

Le cause di questo fallimento sono sempre le stesse e riguardano sostanzialmente l’iniqua distribuzione delle risorse. Il piano adottato all’unanimità nel 2000 prevedeva un impegno da parte delle nazioni più ricche a destinare almeno lo 0,7% del Pil per il raggiungimento di quegli obiettivi, ma solo i paesi scandinavi hanno rispettato questo impegno, mentre gli altri paesi non hanno mai superato lo 0,3%.
Eppure basterebbe una minima parte dei capitali che si spendono ogni giorno nella sola prima ora di apertura delle Borse per avere i soldi sufficienti per raggiungere gli obiettivi del Millennio.
Invece no: solo gli Stati Uniti spenderanno quest’anno 100 miliardi di dollari per la guerra in Afghanistan, mentre saranno solo 10 i miliardi che doneranno per gli aiuti in Africa.
Se alcuni progressi sono stati fatti, come la diminuzione della mortalità infantile in alcune aree, non è certo per la cooperazione internazionale, ma perché in queste aree si è deciso di non aspettare più e di operare autonomamente, nei limiti del possibile, in termini di ridistribuzione della ricchezza.

Ciò che appare evidente è che questi piani lanciati, aggiornati e rilanciati dall’assemblea dell’Onu non sono vincolanti e, quindi, non è prevista alcuna sanzione per chi non mantiene le promesse. Ancora una volta è una questione di “responsabilità politica”. E siccome una “legge di responsabilità politica”, che vincoli il mantenimento del mandato degli eletti al rispetto degli impegni presi, non esiste in alcun paese, i governi non si sentono nemmeno in dovere di rispondere di fronte alla loro opinione pubblica nazionale.
Così l’opinione pubblica nei paesi più ricchi è portata a risentire del problema della povertà mondiale solo come ripercussione in termini di ondate migratorie dai paesi più poveri, dimenticando troppo spesso che tali flussi sono soprattutto dovuti alla fuga da condizioni disumane determinate proprio da chi governa la politica e l’economia nei paesi più ricchi e a livello mondiale.

Stiamo parlando, in ultima analisi, di quegli stessi poteri che, oltre a rinnegare oggi ciò che hanno promesso ieri, continuano a fare di tutto per appropriarsi delle risorse naturali dei paesi in via di sviluppo. Ecco perché siamo d’accordo con il presidente della Bolivia Evo Morales, il quale, a proposito dell’impegno di assegnare lo 0,7% del Pil in aiuti, afferma che “non si tratta di un regalo, ma di una parte del debito”.

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