Nell’immaginario collettivo la parola “riforma” è sempre stata sinonimo di miglioramento delle condizioni attuali e, soprattutto, di superamento dei disagi che una data situazione sta determinando, se non a tutti, sicuramente a gran parte dei cittadini.
Si può dire la stessa cosa per la cosiddetta “riforma Gelmini” dell’Università approvata definitivamente dal Parlamento? La grande mobilitazione degli studenti e dei lavoratori precari dell’università, a cui si sono di volta di volta aggiunte numerose rappresentanze di diversi settori della società italiana, dimostra che non si può dire che questa “riforma” sia percepita come uno strumento per superare le già pesanti difficoltà che il mondo universitario vive da diversi anni a questa parte.
Come mai? Può essere che centinaia di migliaia di persone non abbiano capito le conseguenze straordinarie delle norme elaborate dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca?
Magari non sono ben informate. Però anche questa eventualità sembra improbabile, non fosse altro che per il fatto che il capo del governo, di cui fa parte il suddetto ministero, è proprietario di numerosi mezzi di comunicazione di massa, per cui non è credibile l’ipotesi che i sostenitori di tale “riforma” non abbiano avuto la possibilità di spiegare agli italiani quali straordinari passi in avanti farà l’Università con i provvedimenti di Maria Stella Gelmini.
Per cui, dando per scontato che gli spazi per spiegarsi erano disponibili, due sono le possibilità: o chi doveva spiegare lo ha fatto male o chi doveva ricevere le spiegazioni non ha capito.
Ma anche queste due ipotesi sono poco probabili, in quanto da una parte si presuppone che chi doveva spiegare le ragioni di una “riforma” che riguarda il mondo del sapere abbia quelle minime capacità di linguaggio che permettono una comunicazione fluida e comprensibile; dall’altra non è plausibile che tutte le centinaia di migliaia di cittadini che hanno protestato abbiano un quoziente intellettivo così basso da non riuscire a comprendere ciò che veniva loro spiegato.
Scartate anche queste ipotesi, che altra possibilità rimane per spiegare il fatto che la “riforma” di Gelmini, Tremonti & Co non sia percepita dalla maggioranza dei diretti interessati come una vera riforma, ma addirittura come una “contro-riforma”, cioè come qualcosa che aggrava ulteriormente una situazione già difficile e pesante?
Una spiegazione che ha buone possibilità di essere la più probabile sembra essere un’altra: nonostante sia stato sbandierato ai quattro venti che la “riforma” Gelmini rilancerà l’istruzione terziaria e combatterà il baronato, nessuno ci crede perché nella realtà non sarà così.
Ci risulta veramente difficile credere che il taglio dei fondi all’università pubblica, contemporaneo all’aumento delle risorse per le università private, sia il mezzo migliore per rilanciare l’istruzione terziaria. Non siamo così ingenui da credere che la prevista riorganizzazione del sistema universitario, che instaura una vera e propria monarchia assoluta dei rettori e dei consigli di amministrazione, cancellerà la piaga del baronato. È praticamente impossibile credere che in questo paese si potrà continuare a fare ricerca se di decine di migliaia di ricercatori precari solo una ridicola percentuale potrà essere assunta a tempo indeterminato, mentre gran parte di essi, dopo ancora qualche anno di parcheggio nel limbo del precariato, si troverà praticamente senza alcun reddito.
Non sembra, quindi, che Maria Stella Gelmini sia un’incompresa. Anzi, tutt’altro, l’abbiamo compresa benissimo. Non solo abbiamo “preso” in considerazione le sue spiegazioni, ma abbiamo “com-preso” che la sua “riforma” non ha nulla a che fare con il bene comune dell’Università e della Ricerca, ma al massimo risponde alle esigenze di cassa di un governo assolutamente inutile per un paese in piena crisi economica.
Assodato che quella approvata dal Parlamento non è una “riforma”, in che direzione si dovrebbe invece andare per approdare ad una vera riforma dell’Università? L’unica via possibile è quella dettata da una democrazia reale, diretta, che permetta di lanciare e vagliare ipotesi di riforma ai veri protagonisti, cioè studenti, docenti, ricercatori, personale non docente dell’università.
Una strada percorribile potrebbe essere quella di partire dai diritti fondamentali, quelli sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalla Costituzione italiana. Dichiarazioni da cui è molto facile dedurre che il rispetto dei diritti umani è incompatibile con la creazione di atenei di serie A e atenei di serie B; che la conoscenza è un valore in sé, un patrimonio per l’intera umanità e che non spetta a nessuno decidere chi abbia diritto a conoscere e chi no; che la vera autonomia didattica significa che ogni studente possa interagire nel processo di apprendimento, dando sufficiente spazio alla creatività; che la ricerca, per essere veramente tale, non può essere dettata da interessi politico-economici di aziende private a tutto discapito della ricerca pura e di base, l’unica che permette reali salti di qualità a livello sociale.
A partire da presupposti di questo genere, una reale riforma potrebbe prendere in considerazione alcuni punti fondamentali:
- aumento significativo dei finanziamenti dello Stato all’università, il che presuppone che l’intera programmazione economica e finanziaria debba seguire un’altra scala di priorità rispetto a quella attuale, ben poco rispettosa dei diritti umani fondamentali;
- diminuzione progressiva della tasse, con l’elaborazione di un piano che, nel giro di alcuni anni, renda gratuito l’accesso agli studi universitari;
- abolizione del numero programmato per tutti i corsi di laurea e diplomi universitari;
- riconversione dei fondi destinati alle università private in interventi per il diritto allo studio;
- apertura degli organi decisionali a tutti gli studenti e al personale non docente, con possibilità di votare le delibere da parte di tutti, attraverso sistemi informatici ormai alla portata di qualsiasi istituzione;
- piena trasparenza dei bilanci delle facoltà, che dovranno essere resi pubblici e comprensibili per tutti e che dovranno comunque essere approvati tramite il voto di tutti;
- riduzione significativa del rapporto numerico tra studenti e docenti;
- aumento dei fondi per la ricerca di base e meccanismi di controllo sulla trasparenza dei finanziamenti stanziati al fine di una distribuzione più equa per gli enti e i programmi di ricerca.
Come verrebbe percepita una “riforma” che abbia gli obiettivi appena menzionati?
Abbiamo la netta sensazione che obiettivi di questo genere, anche se non condivisi da tutti, hanno molte più probabilità di essere percepiti come facenti parte di una vera proposta riformatrice, che tende a migliorare la condizione attuale.
Abbiamo la netta sensazione che, comunque, una vera riforma non può prescindere dalle esigenze, dalle proposte e dalle critiche dei diretti interessati. Una vera riforma non può prescindere, in due parole, dalla sovranità popolare.