Il Signor Burns appone questo cartello di fronte all'ufficio di Theresa May. #BrexitSiamo a meno di due giorni dalle elezioni europee del 2019. E' bene tornare sull'argomento perché stimolato da alcune discussioni notate, del tutto involontariamente, su Facebook. Più di qualche utente, soprattutto giovane, in più di qualche thread di discussione, ammetteva di non riuscire a votare il Partito Democratico, pur essendo europeista come chi stava esprimendo tale concetto, perché non sarebbe più credibile. Dunque, il colpo di genio: per gli europeisti, sosteneva sempre questo tale, sarebbe cosa buona e giusta votare +Europa, anziché il Pd.
Tutto ciò ha stimolato una riflessione che ho già sviluppato ma che vorrei attualizzare.
 
Il dibattito attorno all’Europa e alla sua costituzione non si è mai sopito e, anzi, ha generato un effetto contrario rispetto a quel che avrebbe dovuto generarsi: anziché un dibattito aperto, vero e franco – come si direbbe nelle organizzazioni politiche - sulla natura dell’integrazione europea, sui meccanismi di bilancio e sulla rappresentanza di ciascun paese - si è rimasti sulle elaborazioni di parte o aprioristicamente favorevoli o totalmente contrarie. Tempo fa su Pressenza, agenzia umanista internazionale, è stato pubblicato un articolo il cui titolo era: Elezioni 2019, Europa al bivio: più Europa o più nazionalismo?. Il pezzo riportava frasi ricorrenti e concetti più o meno simili a quelle espresse da quei giovani e riassumibili in queste espressioni: «[…]L’Europa è lontana dall’essere perfetta, ma non è neanche quel buco nero che tutto distrugge come viene descritta da certuni. Senza dubbio, sono evidenti i benefici ottenuti da alcuni settori e in numerose regioni grazie alle azioni politiche condotte da Bruxelles […] Gli errori dell’Unione Europea: poca Europa, solo Mercati». Partiamo dunque dall'ultima espressione: lo 'sbaglio' di aver costituito prima l'europa monetaria e poi quella politica.

La bufala dell'errore della costruzione dell'Europa monetaria anziché di quella politica

Due questioni che aprono due dibattiti apparentemente paralleli ma in realtà convergenti e sovrapponibili: l’Europa, intesa come entità etnico/geografica e la costituzione dell’Unione Europea così come la conosciamo e per come si è sviluppata nel corso degli anni. 

Un conto è la geografia, un conto la politica 

L’Europa come entità geografica è un qualcosa a cui nessuno può o intende opporsi o negarvi un’appartenenza. Se si rimane nel seminato delle considerazioni geografiche è facile dire che anche io, da antieuropesta, mi potrei sentire “europeo” dal momento che l’Italia condivide una porzione di un Continente con altri Stati. Ma finisce lì. Al netto delle considerazioni storiche riguardo il Vecchio continente. La questione è che si è voluto dare, e la stragrande maggioranza delle persone vi ha indubbiamente abboccato, una risposta cosmopolita a questa oggettiva speculazione geografica:

«[…] il cosmopolitismo prescinde dalle nazioni e ha un carattere individualistico. L’individuo si sente cittadino del mondo, invece che legato ad una determinata comunità territoriale. Sul piano economico, il cosmopolitismo esprime l’aspetto della mobilità, una delle caratteristiche vitali del capitale, che richiede sia l’esistenza dello Stato territoriale, per le garanzie e le regole che questo può offrire, sia un’ampia libertà di movimento al di sopra dei confini statali» (Domenico Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, p.20., 2018, Imprimatur).

Cercare di sfruttare questa ovvietà geografica per rimarcare la necessaria coesistenza e traslare il tutto in “ovvia strutturazione di una sovrastruttura sovranazionale” come l’Ue, è un atto politicamente torbido e intellettualmente disonesto. Così come, allo stesso modo, contrapporre una risposta binaria (sì/no, pro/contro) ad una questione estremamente complessa come l’Unione Europea. Sempre più spesso si ascoltano discorsi per cui o si è assolutamente aderenti con l’Ue e con tutto quel che ne consegue, altrimenti si è nazionalisti, salviniani, leghisti e fascisti. La generazione più colpita da questo colossale fraintendimento è la precedente a quella di chi scrive: i nati nel corso della Guerra Fredda, infatti, dopo aver attraversato la dissoluzione dell’Urss, la distruzione del Partito comunista e socialista in Italia e negli altri Paesi, hanno vissuto nell’illusione tutta positiva dell’abbattimento delle frontiere come carattere individualistico e ottimamente propulsivo della conoscenza del mondo. Una risposta cosmopolita, per dirla nei termini di Domenico Moro, ad una esigenza del capitalismo di riaffermarsi in tutto il globo, una volta venuto a mancare il blocco orientale e i paesi del Patto di Varsavia. Affermare un’europeismo oggettivo, geografico, non significa, però, essere supinamente pro-Ue: la distinzione è enorme e il fraintendimento causato dalla sovrapposizione di questi due piani ha creato una generazione la cui aspirazione massima è la conoscenza cosmopolita del mondo ad essa prossimo, intesa nel senso prima esposto. E ancora, sviluppando una tendenza al non c’è alternativa, il cosiddetto Tina (There is no alternative): il sentimento della mancanza d’alternativa, del contrappeso – se vogliamo – della presenza di un altro sistema economico, politico e sociale, ha fatto apparire come unica e necessaria la strutturazione della sovrastruttura dell’Unione europea.

«Non c’è ancora integrazione: dobbiamo avere più Europa!»

«Non c’è ancora integrazione: dobbiamo avere più Europa!»


Che è un po' come dire, volendo consapevolmente banalizzare la questione: «il bambino ha la febbre: facciamolo stare a contatto con altre persone che hanno la febbre, gli passerà!». Curare, in sostanza, la malattia con la malattia stessa. Un meccanismo del tutto perverso, se ci si riflette a mente fredda. La menzogna concatenata al discorso fin qui esposto («sono nato in Europa, dunque 
sono automaticamente europeista-filo-Ue e filo Uem – Unione europea monetaria») è quella per cui si accetta la linea dell’Ue ma con riserve ma non nel senso di critiche all’impianto a-democratico della struttura sovranazionale così com’è, ma in quanto servirebbe una maggiore integrazione dei paesi membri dell’Unione affinché si consolidi la cosiddetta europa politica. Il fatto che sia stata creata prima l’Europa del capitale, l’Europa finanziaria, di quella politica, non rappresenta un errore o una scelta affrettata, quanto proprio una scala di priorità di chi ha fatto in modo che si procedesse in tal senso. Criticare l’Ue significa, almeno per chi scrive, essere coerentemente antieuropeista nella misura in cui essere europeisti significhi e si traduca con giustificare e appoggiare tutte le politiche che sono state realizzate fino ad ora, anche nei confronti di chi – velatamente – critica tale impianto perché there is no alternative (Tina). Anche perché, citando sempre il libro di Domenico Moro, integrazione europea si tradurrebbe in «riogranizzazione del processo generale di accumulazione capitalistica a livello continentale»:

«[…]Il combinato disposto di crisi, globalizzazione e integrazione europea, oltre a bruciare milioni di posti di lavoro, ha eliminato migliaia di imprese e di unità produttive. L’euro, infatti, ha favorito la centralizzazione dei capitali europei, mediante funzioni e acquisizioni tra imprese, in modo che queste potessero raggiungere dimensioni pari a quelle dei grandi gruppi statunitensi e asiatici. Ma non basta: il prossimo passo dell’integrazione europea è la creazione del mercato unico dei capitali, la cui premessa è l’unione bancaria. La riforma bancaria europea ha provocato il fallimento di molte banche, scaricandone i costi, mediante l’introduzione del bail in, sui risparmiatori che vi avevano investito, e favorito la centralizzazione anche a livello bancario. Lo scopo è, da una parte, realizzare un mercato di capitali adeguato alle necessità espansive e di acquisizione dei grandi gruppi, e, dall’altra, favorire la quotazione in borsa e l’aumento dimensionale delle imprese, in sintesi attuare la riorganizzazione del processo generale di accumulazione capitalistica a livello continentale». (Domenico Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, p.25, 2018, Imprimatur).

È la domanda iniziale ad essere sbagliata 

La domanda posta, in ultima analisi, fra la necessità di una maggiore richiesta di Europa o una risposta nazionalista/sovranista, è sostanzialmente sbagliata. Porre in questi termini la questione significherebbe lasciarsi attraversare dalla retorica dei grandi gruppi editoriali, al soldo del capitale transnazionale, e della propaganda pro-Ue. Il solo fatto che ci possa essere, da sinistra o ancora più precisamente da marxista una critica netta al liberismo, all’euro e all’Unione europea così come si presenta ai nostri occhi, fa sì che la reazione sia scomposta e si inneschino dei discorsi di rosso-brunismo che, oltre alla loro risibilità, lasciano davvero il tempo che trovano. Alla grande stampa interessa che vi siano solo due posizioni che emergano nell’agone politico nazionale: da una parte quella pro-Ue (Partito democratico, Radicali, +Europa etc), dall’altra la retorica anti-Ue da destra (Lega, Fratelli d’Italia, Movimento 5 Stelle) i quali vorrebbero, comunque, un ritorno al sovranismo solo per favorire momentaneamente una piccola porzione di capitalismo nazionale che, nel frattempo, ha delocalizzato lasciando disoccupati migliaia di lavoratori “in patria”.
 

«Sei anti-Ue? Allora, voti Salvini»

Una delle [tante] altre risposte a tutto questo è la più geniale (diciamo così) di tutte, quella che sta facendo riemergere la questione antifascista agli (orrori) delle cronache politiche quotidiane: essere antieuropeista si tradurrebbe, agli orecchi di chi ascolta o agli occhi di chi legge, immediatamente, in un velato sostegno a formazioni neofasciste. Un sostegno anche inconscio e inconsapevole che prima o poi, riemergerà con tutta la sua forza. L’antifascismo che sta emergendo in questa fase politica rappresenta una formazione di facciata di fronte al giornalismo d’accatto e parimenti uno scalpo da ostentare nei confronti della dilaniata opinione pubblica italiana. Dichiararsi antifascisti perché (ormai l’adagio è passato) in Europa dopo la guerra ci sono stati 70 anni di pace rappresenta, in sé, una bella [e grossa] bugia. Prima di tutto perché la guerra c’è, c’è stata ed è tuttora alle nostre porte: Jugoslavia e Ucraina, tanto per citarne solo due, non sono territori remoti. Senza contare di tutte le missioni militari che – ad esempio l’Italia – i paesi Nato promuovono: Afghanistan, Iraq, Libano, Niger e la lista è molto lunga. In secondo luogo perché l’antifascismo è, di per sé, un’azione politica (oserei dire un programma politico, dato che ha prodotto la Costituzione della Repubblica Italiana, prima che essa venisse modificata nel corso del Governo Monti) che prescinde dall’appoggiare sovrastrutture che nessuno ha eletto ma che, attraverso un auto-mandato, governano su quel che rimane degli stati nazionali: antifascismo è, necessariamente, anticapitalismo. Tertium non datur. Ecco, però, emergere un antifascismo in seno alle classi dominanti le quali, non riuscendo più a contenere gli istinti bestiali del liberismo, a seguito della globalizzazione post dissoluzione sovietica, fanno appello alle classi popolari e subalterne per poter creare una sorta di “fronte comune” contro la paura, la xenofobia, il razzismo, il fascismo. La socialdemocrazia europea, infatti, sta recitando questo copione da svariati anni e il sipario sta per calare su di essa. Il deputato umanista cileno Tomas Hirsch, a riguardo, ha dato una spiegazione magistrale del perché la socialdemocrazia è in crisi, tanto in America latina (in particolar modo nel suo paese), quanto in Europa:

«La socialdemocrazia sta scomparendo in Europa e sta scomparendo in America Latina per una ragione molto semplice: tra una brutta copia e l’originale, la gente ha preferito l’originale. […] Non è possibile cercare di “migliorare” il modello [neoliberista ndt], “umanizzarlo”, “ritoccarlo”: o sei per questo modello individualista, o sei per un cambiamento strutturale profondo della società che garantisca diritti alle persone. La socialdemocrazia non è né per uno, né per l’altro». 

E non è vero che non c’è alternativa. Solo, non se ne parla, si annichilisce, si osteggia aprioristicamente con il Tina, non ci viene mostrata, un po’ come per il Mito della caverna di Platone.

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