Alla fine, puntuale, la nota della Conferenza Episcopale Italiana sulle unioni di fatto è arrivata. Una nota che non desta alcuna meraviglia, né nella forma, né nel contenuto. Ancora una volta si conferma ciò che il filosofo empirista John Locke aveva così ben espresso nella "Lettera sulla tolleranza" del 1689: "Si comprende allora di che cosa sia capace il fanatismo religioso unito alla volontà di dominio e quanto facilmente il pretesto della religione e della salvezza delle anime possa mascherare cupidigia ed ambizione".
A fondamento del discorso di Locke nella "Lettera" vi era la netta separazione tra lo Stato e la Chiesa, cioè la distinzione tra le competenze dell'autorità civile e di quella religiosa, distinzione che fu di enorme portata storica. Pertanto lo Stato può intervenire per imporre leggi e sanzioni, ma non per imporre articoli di fede o dogmi o forme di culto. Anche il rapporto tra le varie Chiese deve ispirarsi al dovere della tolleranza. Nessuna di esse può infatti vantare alcun diritto sulle altre, giacché "ogni chiesa è ortodossa per se stessa, ed erronea o eretica per le altre". Un conflitto potrebbe sorgere solo se non si rispettano i limiti delle proprie competenze da una parte o dall'altra. Questo è purtroppo quanto accade, secondo Locke, nel caso dei cattolici, i quali, proprio per questo, vanno esclusi dal campo di chi può beneficiare della tolleranza del sovrano. Infatti la sottomissione dei cattolici al Papa è un vero e proprio passaggio ad un sovrano straniero e questo non può essere tollerato, nella misura in cui, del resto, sono essi – i cattolici – che si rifiutano, dice Locke, di rispettare gli altri.
Questo era il ragionamento di Locke più di trecento anni fa. A parte qualche dettaglio ovviamente legato al contesto storico-sociale in cui viveva il filosofo, dobbiamo constatare che nella sostanza la situazione non è molto cambiata nell'Italia del 21° secolo. Pur non escludendo, in quanto umanisti, alcun essere umano - e quindi neanche i cattolici - dal campo di chi può beneficiare della tolleranza, come invece proponeva Locke, vediamo confermare, dopo l'ultima nota della CEI, un atteggiamento alquanto arrogante e poco rispettoso da parte della Chiesa cattolica.
All'inizio della nota si legge: "L'ampio dibattito che si è aperto intorno ai temi fondamentali della vita e della famiglia ci chiama in causa come custodi di una verità e di una sapienza che traggono la loro origine dal Vangelo e che continuano a produrre frutti preziosi di amore, di fedeltà e di servizio agli altri, come testimoniano ogni giorno tante famiglie". Leggendo il Vangelo non appare così evidente che la Chiesa, nella sua storia millenaria, si sia ben distinta in questo compito di custode di quella verità e di quella sapienza che deriverebbero dal testo evangelico, in cui si parla di pace, di fratellanza, di tolleranza, di comprensione e di perdono. Quante guerre ha benedetto la Chiesa nella sua storia? Quante vite sono bruciate sul rogo dell'intolleranza inquisitoria? E ancora: Dove sono questi frutti preziosi di amore testimoniati dalle famiglie, se proprio all'interno delle mura domestiche si consumano la maggior parte degli omicidi e delle violenze?
Successivamente si legge: "Non abbiamo interessi politici da affermare". Ma nella nota della CEI viene riportata la frase del Papa tratta dalla sua recente Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis, e che dice: "i politici e i legislatori cattolici, consapevoli della loro grave responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana", tra i quali rientra "la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna". Si legge più avanti: "nel caso di un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge". Non vorremmo sbagliarci, ma la dichiarazione del Papa e quella successiva, nella loro esortazione verso i parlamentari cattolici, hanno tutti i connotati di perentorie affermazioni di ben precisi interessi politici, almeno per quel che noi intendiamo per "interessi politici". Se così fosse, abbiamo la netta sensazione di aver individuato una contraddizione molto evidente e poco giustificabile.
Ma questa non è l'unica contraddizione presente nel documento dei vescovi italiani. È vero che all'inizio della nota si precisa che la Chiesa è custode dei valori che traggono origine dal Vangelo e quindi, in quanto tali, valori che si rifanno ad un ben precisa dottrina religiosa, ma successivamente i vescovi sembrano dimenticare tale precisazione e si ergono a custodi delle "esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società", in virtù della quali il fedele cristiano non "può appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia" di dette esigenze. Se le esigenze etiche a cui si rifanno i vescovi sono solo le basi di una determinata dottrina religiosa e a cui crede solo una parte della popolazione italiana, come fanno a diventare le esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società? Sospettiamo che tale dimenticanza non sia il frutto di un caso, ma di una precisa intenzionalità manipolativa.
Ma la contraddizione peggiore, a nostro avviso, è quella finale, in cui si afferma che questa nota "nasce dall'amore di Cristo per tutti i nostri fratelli in umanità". Ogni persona che ha chiaro il concetto di coerenza, dedurrebbe che questa esortazione, rivolta ai politici cattolici, ad essere coerenti con i valori fondanti di pace e di fratellanza del cristianesimo, sia concomitante ad altre esortazioni, altrettanto forti e perentorie, rivolte ai medesimi politici quando essi, per esempio, sono chiamati a legiferare in temi di politica estera o di politica sull'immigrazione. Non ci sembra di ricordare una tale veemenza nei confronti di tutti politici di ispirazione cristiana quando hanno votato a favore dell'invio delle truppe italiane in campi di guerra come l'ex-Jugoslavia, l'Afghanistan o l'Iraq. E neanche ci sembra di rammentare una uguale perentorietà nei confronti degli stessi politici, che si sarebbero dovuti ispirare all' amore "di Cristo per tutti i nostri fratelli in umanità", quando hanno votato le leggi razziste – "Turco-Napolitano" o "Bossi-Fini" - contro gli immigrati.
Come mai? Perché un'unione tra due persone dello stesso sesso diventa più pericolosa di 1.938 soldati italiani mandati, armati di tutto punto, sul suolo afgano?
Queste sono alcune delle domande che quegli "infedeli" di umanisti continuano a porre a chi, come la CEI, si erge a custode dell'etica fondamentale per il bene di tutti gli esseri umani. Le nostre orecchie sono sempre pronte ad ascoltare, ma non siamo ancora riusciti a sentire una sola risposta.
Peccato. Fin quando non arriveranno queste risposte, ci dispiace, ma anche questa nota della CEI non può essere niente di più che una nota a piè di pagina nel grande libro della storia dell'Uomo.