Come al solito dopo una tornata elettorale si dice tutto e il contrario di tutto. Anche noi vogliamo contribuire a questo dibattito, ovviamente dal nostro punto di vista.
Il dato principale sembra essere l’aumento consistente della percentuale dei cittadini che decidono di astenersi dal voto. Siamo ancora lontani dalle percentuali irrisorie di partecipazione al voto che si registrano negli Stati Uniti, ma il processo di allontanamento dalle urne degli italiani non si è mai fermato e nulla ci impedisce di immaginare nel futuro percentuali di votanti sempre più vicine a quelle americane.
Sempre se non cambia qualcosa, ovviamente.

E che cosa dovrebbe cambiare? Ebbene qui, quando si dovrebbe passare dall’analisi alle proposte, il panorama delle dichiarazioni si fa più scarno, le idee si riducono drasticamente, forse perché nessuno è andato al di là di ciò che appare.

Certo, tutti ormai affermano che c’è stato uno scollamento tra la politica e la società. Ma perché? Indubbiamente i partiti politici si sono trasformati: a livello territoriale sono praticamente scomparsi e non c’è più quel contatto permanente tra politica e cittadinanza che alimentava il dibattito a livello di base.

Possiamo però dire con certezza che l’astensione dal voto è dovuta soltanto a questa assenza “fisica” della politica dalla vita quotidiana dei cittadini? Eppure il dibattito in un certo senso si è trasferito dalla strada e dai quartieri alla rete, dove ogni giorno c’è un continuo botta e risposta tra esponenti politici e cittadini. Il contatto, quindi, non è scomparso, si è solo trasformato.
Probabilmente c’è qualcosa di più profondo alla base dell’astensionismo e, come ben sappiamo, un problema non si risolve se non lo si affronta alla radice.
Se allontanamento c’è stato, non è stato solo della politica dalla società, ma anche della società dalla politica. Almeno dalla politica istituzionale e partitica. Perché?

Da che cosa può essere provocato un allontanamento? Da una sensazione di pericolo, per esempio. Seguendo questa ipotesi, la sensazione di pericolo è generata dalla percezione di qualcosa che minaccia, qualcosa che può esercitare violenza.

L’essere umano, siccome è sostanzialmente un essere storico e sociale, ha ormai imparato bene che cos’è la violenza e sempre più persone hanno anche imparato che rispondere alla violenza con la violenza porta solo ad altra violenza, senza risolvere alcunché.
Per cui, un numero sempre maggiore di persone sta scegliendo di allontanarsi da ciò che è fonte di violenza, anziché armarsi e rispondere ancora una volta seguendo la legge dell’occhio per occhio e dente per dente.
Seguendo questo ragionamento, quindi, sta nella violenza la ragione principale del crescente astensionismo.

Che cos’è d’altronde, se non violenza, il buttar fuori dal mondo del lavoro milioni di persone affinché vengano salvaguardati gli interessi di chi ha generato l’attuale crisi economica mondiale?
Che cos’è, se non violenza, l’aver ridotto progressivamente la rappresentatività attraverso leggi elettorali sempre più escludenti le minoranze a colpi di premi di maggioranza e soglie di sbarramento?   
Che cos’è, se non violenza, l’aver ridotto a tal punto lo stato sociale da costringere milioni di cittadini a non curarsi più o a interrompere l’istruzione dei figli pur di risparmiare e arrivare alla fine del mese?
Che cos’è, se non violenza, l’aver ridotto il dibattito politico ad una miscela di offese ed ingiurie rivolte a destra e a manca pur di apparire sui mass media?

Abbiamo fatto solo qualche esempio, ma dovrebbe essere sufficiente per capire che in un contesto così intriso di violenza l’astensionismo è il minimo che ci si poteva aspettare da una fetta sempre più larga della collettività. Un numero sempre più grande di cittadini ha fatto questa scelta perché non vuole rispondere con la violenza e al contempo non ha ancora gli strumenti per dare una risposta diversa.   
Che cosa si sta aspettando per cambiare strada? Che la violenza arrivi a livelli tali da generare, in mancanza di alternative, una disperata reazione ugualmente violenta tale da giustificare, per giunta, la repressione dello stato?

Noi non crediamo che chi oggi detiene il potere voglia cambiare strada.
Di conseguenza chi può cambiare strada è chi oggi sente la necessità di farlo. E siccome la non-risposta alla violenza non è sinonimo di nonviolenza, l’unica risposta efficace è la nonviolenza attiva.
Quella nonviolenza attiva che passa attraverso la democrazia reale, la democrazia intrisa di partecipazione libera e indipendente. L’unico strumento, l’unica metodologia d’azione che può rispondere ad un potere onnipresente e pronto a tutto pur di difendere un modello di sviluppo basato sull’annullamento totale dell’intenzionalità umana.

Questo è il nostro punto di vista. Se la violenza, in tutte le sue forme, è la fonte di disagio che genera l’astensione e la non partecipazione, la risposta non arriverà da chi genera o collabora a mantenere tale violenza, ma da chi la sta subendo e trova nella nonviolenza attiva la metodologia più efficace per fermare tale violenza e mettere le basi per una società finalmente umana, finalmente universale. 

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