Il Contesto dell’Unione Europea

Noi Umanisti aspiriamo ad un futuro in cui tutti i popoli del mondo possano integrarsi in una Nazione Umana Universale. In tal senso, in questo processo di integrazione differenziamo ciò che chiamiamo mondializzazione da ciò che comunemente viene chiamata globalizzazione. La prima ha a che vedere con l’integrazione dei popoli con le loro diversità culturali, la seconda ha a che vedere invece con l’espansione e la penetrazione del potere economico e finanziario globale che impone ai paesi la sua logica depredatrice.

Ovviamente come Umanisti incoraggiamo tutti gli avanzamenti che si producono nel campo delle integrazioni regionali, se rappresentano un passo verso quella Nazione Umana Universale futura. E senza dubbio l’integrazione economica dovrà essere un aspetto importante di questa integrazione, ma non dovrà essere quello più importante o, in ogni caso, dovrà essere subordinato a un interesse superiore legato a una vera integrazione solidale dei popoli, in cui le strutture economiche siano al servizio dello sviluppo umano senza frontiere.  E se l’uso di una moneta comune nel processo di integrazione regionale contribuisse a tale sviluppo, bisognerebbe ovviamente sostenerla.

Ma quel che succede in alcune integrazioni regionali in atto nel mondo è molto diverso perché esse non sembrano costruite a partire dalle necessità e dagli interessi delle popolazioni, ma piuttosto in base agli interessi delle multinazionali e del potere finanziario globale. È questo il caso dell’Unione Europea, sempre più al servizio delle banche e delle imprese e non della gente; ed è questo il caso dell’euro, che potenzia la crescita delle economie più forti finendo per smantellare e indebitare le economie più deboli. Nel frattempo, i mass-media privati, asserviti agli stessi poteri economici, manipolano l’opinione pubblica per convincerla che i paesi seri sono quelli che applicano l’economia neoliberale e che, se a un paese le cose vanno male, è solo perché il suo governo è corrotto e il suo popolo pigro. In questo modo si dividono i popoli, affinché non solidarizzino tra loro quando un paese cade in disgrazia, vittima delle politiche neoliberali. In tal modo i governi hanno argomenti per essere crudeli con i popoli e generosi con le banche.

Quando si è formata l’UE e poi l’eurozona, esistevano già importanti differenze tra le economie dei paesi membri, differenze nel livello di produttività e di sviluppo industriale. Nella storia, i paesi con minore produttività hanno fatto leva sul valore della propria moneta per far fronte a questo tipo di differenze e hanno gestito il loro commercio estero cercando un equilibrio che permettesse di mantenere il livello occupazionale. In questo modo, ogni paese cercava di mantenere il proprio equilibrio per poi svilupparsi e si presumeva che il livello medio di vita della popolazione sarebbe stato corrispondente al suo livello di sviluppo. Ma quando si costruì la zona di libero commercio e dell’unione monetaria in Europa, i suoi membri rinunciarono a quegli strumenti di politica economica, sicuramente pensando che la nuova organizzazione sovranazionale avrebbe contemplato la risoluzione delle asimmetrie tra i paesi. Ma l’UE organizzò la sua economia sotto i paradigmi del neoliberalismo, supponendo che il mercato avrebbe regolato tutto in modo armonico, supponendo che laddove ci fossero stati disoccupati, i capitali produttivi sarebbero andati a mettere le loro radici o che i disoccupati sarebbero potuti migrare con facilità verso i paesi ricchi e supponendo, inoltre, che i capitali finanziari si sarebbero mossi per soddisfare le necessità degli investimenti produttivi. Ma la libertà di movimento all’interno dell’eurozona ha prodotto esiti diversi per ogni protagonista: i capitali finanziari possono muoversi da un posto all’altro in pochi secondi, mentre i capitali produttivi hanno bisogno di più tempo e il radicamento e le barriere culturali limitano, di fatto, le migrazioni, anche se le persone possono muoversi liberamente attraverso le frontiere. D’altra parte, già nel resto del mondo si è visto che le politiche neoliberali hanno dato vita alla speculazione dei capitali finanziari, all’indebitamento sistematico e allo smantellamento industriale di molti paesi; hanno dato il via alla fuga dei capitali verso paradisi fiscali e alla fuga delle industrie verso paradisi lavorativi. E se il virus del neoliberalismo globalizzante ha potuto fare tutto ciò con nazioni che mantenevano la loro sovranità e la loro moneta, i suoi effetti sono stati ben più pesanti in un’eurozona i cui paesi avevano abbassato le loro difese.

Quindi, se oggi l’UE è in crisi e l’eurozona è in dubbio, non è perché il mondo non è preparato per l’integrazione regionale, ma perché si è voluto costruire l’Europa sotto il segno neoliberista.

Verità e menzogne sull’indebitamento

La versione che si è installata in buona parte dell’Europa - e che i mass-media agitano per riversare tutte le colpe sui greci - attribuisce la responsabilità ai governi corrotti che hanno indebitato irresponsabilmente il paese, che hanno dilapidato le risorse, che hanno sovradimensionato il settore pubblico con il conseguente deficit fiscale e che hanno falsificato persino la loro contabilità per occultare il deficit e l’indebitamento. Questa responsabilità dei governi sarebbe condivisa dalla popolazione, che in definitiva li ha votati, ha beneficiato delle elargizioni, di un sistema pensionistico lassista, del credito al consumo e dell’illusoria prosperità di una bolla, vivendo al di sopra delle possibilità permesse dalla sua economia. Alcune di queste versioni sono corredate da dati reali e vengono diffuse per esasperare l’indignazione dei cittadini degli altri paesi, com’è il caso dei tedeschi quando vengono a sapere che la pensione più alta in Grecia è di 3.500 euro mentre in Germania è di 3.100, o che l’età pensionistica per molti lavoratori greci è inferiore a quella dei lavoratori di altri paesi con le stesse mansioni. L’Istituto di Previdenza Sociale (IKA), che è in deficit e rappresenta una parte importante del bilancio statale, paga una pensione a 5,5 milioni di persone (in sostanza la metà della popolazione); esistono più di 600 professioni in cui è possibile andare in pensione prima e avere una pensione anticipata, perché ritenute a rischio, come parrucchieri, camerieri, musicisti e altre attività che in qualunque altro paese andrebbero in pensione alla stessa età degli altri lavoratori.

Anche sulle entrate statali c’è molta inefficienza, perché c’è una grande evasione; molti lavoratori autonomi e imprenditori non pagano le tasse e ci sono persino esenzioni Iva per le isole che hanno grandi entrate per il turismo, ma non contribuiscono in modo proporzionale a un aumento delle entrate fiscali per ridurre il deficit.  Nonostante ciò, la Grecia tra il 1999 e il 2007 ha aumentato la spesa pubblica del 50%, finanziandola con l’indebitamento.

Con tutte queste informazioni nelle loro cartelle, i rappresentanti degli altri paesi dell’UE induriscono la loro posizione sulla Grecia e chiedono sempre maggiori aggiustamenti. E con la pubblicazione parziale di questi dati sui mass-media, anche le popolazioni di quei paesi s’induriscono e avallano le richieste ai greci dei loro governi.  Molta di questa informazione è sicuramente vera, al di là dell’enfasi e della piega che i media e i falchi dell’UE sono soliti aggiungere; ma c’è un’altra informazione di cui nessuno parla, e ci sono altri responsabili di cui nessuno parla, che sono le banche, le multinazionali e i governi che difendono i loro interessi.

Quando qualcuno s’indebita, è perché qualcuno gli fa prestiti. E se qualcuno s’indebita in modo irresponsabile, è perché qualcuno gli fa prestiti in modo irresponsabile. O forse i banchieri che facevano prestiti alla Grecia non erano altro che ingenui filantropi che credevano nel paese e che poi, in buona fede, sono stati defraudati?

Quando scoppiò la crisi finanziaria mondiale, il detonatore furono i mutui subprime, o mutui spazzatura, sui quali fu costruito tutto un sistema fraudolento di leve finanziarie di prestiti su prestiti, basato sul sostegno debolissimo di milioni di mutui contratti durante la bolla finanziaria. Molti debitori erano insolventi fin dall’inizio e altri lo divennero quando la bolla esplose e il valore dei loro immobili scese a un quarto del loro mutuo ipotecario.  A nessuno venne in mente che i colpevoli di quella gigantesca truffa fossero i milioni di persone che avevano perso le loro case o che le banche e i fondi d’investimento, che avevano generato la bolla e moltiplicato la truffa, non fossero altro che ingenui e generosi prestatori che confidavano ingenuamente nei loro debitori, venendo poi defraudati.  Tuttavia, le centinaia di migliaia di milioni di dollari che vennero destinate a mitigare la crisi, non furono destinate a chi aveva perso la casa ma a salvare le banche. E gli amministratori delegati responsabili della truffa furono invece vergognosamente premiati con cifre scandalose.

È opportuno ricordare tutto questo, perché le banche che hanno fatto lucrosi negoziati concedendo prestiti ai corrotti governi greci, avevano ben chiaro che la Grecia era insolvente, ma questo, di fatto, non era per loro motivo di preoccupazione perché sapevano che, in ultima istanza, avrebbero recuperato ugualmente i prestiti concessi.  E, di fatto, così è stato: le banche francesi hanno ridotto i crediti con la Grecia da 79.000 milioni a 1.300 milioni; le banche tedesche da 45.000 milioni a 10.000 milioni e gli italiani da 12.000 milioni a 1.000. E ora la maggior parte del debito è passato nelle mani dei paesi dell’UE, in forma diretta o attraverso il Fondo Europeo di Stabilità (145.000 milioni di euro), come pure nelle mani del FMI e della BCE. Cioè, ancora una volta i governi e gli organismi internazionali hanno deciso di salvare le banche che hanno concesso prestiti in modo irresponsabile e dicono ai loro cittadini che ora bisogna recuperare il debito che i greci devono ai loro paesi; e in qualche modo danno a intendere che i cittadini tedeschi, francesi, italiani o spagnoli hanno pagato tasse per ripagare gli irresponsabili greci che hanno scialacquato denaro. Una farsa mediatica per mettere i popoli uno contro l’altro, dissimulando la complice sottomissione dei governi al potere finanziario.

Le banche sanno quale potere hanno. Non solo controllano molti governi in quanto soci, ma ricattano anche tutta la società, data la complessa trama delle finanze in cui è organizzato il sistema bancario nell’economia neoliberale. Difatti, quando una banca fallisce, finisce per trascinare nella rottura della catena di pagamenti una fetta importante dell’economia reale, provocando un effetto domino che nessun governo desidera; si genera così una situazione di ricatto nella quale i governi, al di là delle loro convinzioni, finiscono per cedere alle banche. E come se tutto questo non fosse sufficiente a comprendere la perversità del sistema, bisogna anche rendersi conto che chi prende le decisioni, quando una banca o un fondo di investimento compra debiti di un paese poco solvente, non è il proprietario del denaro ma gli amministratori di quel fondo, i quali sanno che in ultima istanza a perdere sarà il correntista, una volta che essi avranno ritirato i loro copiosi guadagni. È per questo motivo che la maggiore responsabilità nella trappola dell’indebitamento è dei prestatori e non dei debitori poco solventi.  È evidente che c’è bisogno di governi corrotti e irresponsabili perché un paese s’indebiti oltre le sue possibilità, ma proprio questo è uno dei problemi delle democrazie formali: il fatto che la gente debba scegliere tra false opzioni, con i mass-media che manipolano affinché la tavola sia apparecchiata per gli avvoltoi della finanza, che dopo aver depredato lasciano i paesi in crisi e si volatilizzano, così gli unici responsabili visibili sono soltanto i governi burattini. Ed è ovvio che quando si formano quelle bolle di illusoria prosperità finanziate con l’indebitamento, molta gente sente che il proprio livello di vita migliora, che può consumare di più e che riceve benefici che col tempo considera diritti acquisiti e che poi ha resistenza a perdere, quando gli spiegano che la festa è finita. Ma di questo non si possono colpevolizzare le popolazioni, perché non hanno motivo di conoscere le torbide manovre finanziarie che ci sono dietro ogni bolla.

Il sovra-indebitamento dei paesi dura già da molti decenni. Negli anni Ottanta ci fu la crisi dei debiti latino-americani, e poi arrivò il Piano Brady per salvare le banche e cambiare di mano ai debiti. Negli anni Novanta il neoliberismo incoraggiò ancora una volta l’indebitamento e le bolle, generando molte crisi tra cui si segnala il default dell’Argentina con una situazione molto simile a quella greca. E agli inizi del nuovo secolo restarono in incubazione altre bolle fino allo scoppio della più grande, con epicentro negli USA, e con questa esplosione si produsse la crisi del debito in molti paesi europei. I governi cambiano, i paesi cambiano, ma c’è un attore che è sempre presente in tutte le crisi: il potere finanziario mondiale che depreda, indebita e attraverso le privatizzazioni mangia la carogna di ciò che resta delle sue vittime.

Per questo motivo ci sembra che i greci dovrebbero fare la loro parte migliorando il sistema fiscale, tagliando i privilegi insostenibili, sanando la loro corruzione. E forse dovranno adeguarsi a vivere con ciò che realmente producono, mentre si sforzano di crescere e svilupparsi. Ma non devono assolutamente soffrire fame o privazioni, né privatizzare tutto il loro patrimonio per interi decenni nel tentativo di cancellare un debito impagabile. E questo debito non dovrebbero pagarlo neppure gli altri popoli con le loro tasse, né dovrebbero perdere i loro risparmi gli investitori in buona fede. Il debito dovrebbero pagarlo coloro che maneggiano il potere finanziario nel mondo e bisognerebbe smantellare il loro potere perché non seguitino a depredare. Ma finché non avranno il coraggio di smantellare il potere finanziario globale, I governi delle grandi potenze dovranno spiegare ai loro contribuenti e ai loro risparmiatori che è a loro che tocca pagare il prezzo della complicità dei loro governi con quel potere.

C’è un altro aspetto del debito, che è in relazione anche alla meccanica neoliberale, giacché il neoliberismo si sostiene alimentando il consumismo. In un mondo in cui la ricchezza si concentra sempre di più, in cui i guadagni imprenditoriali crescono in misura maggiore delle entrate dei salariati e i guadagni della speculazione finanziaria risucchiano sempre di più le risorse che dovrebbero andare alla produzione e al lavoro, in un mondo in cui i salariati ricevono una fetta sempre più piccola della torta, in un mondo simile si possono mantenere i livelli di consumo solo attraverso l’indebitamento. Allora, operando come una tenaglia, da un lato appare il potere finanziario che indebita paesi e persone perché consumino, dall’altro appaiono le multinazionali che offrono i prodotti che si devono comprare con quei prestiti. È stato così in Grecia: banche tedesche e francesi hanno finanziato il consumo dei greci e questo consumo, in buona parte, era costituito da prodotti tedeschi e francesi (armi comprese).

La situazione attuale della Grecia

Oggi la Grecia ha un debito di 340.000 milioni di euro, equivalente al 175 % del suo PIL Dopo tutti gli aggiustamenti fatti negli ultimi anni su richiesta della Troika, in cambio del rifinanziamento del debito, il suo PIL è sceso del 25% e la disoccupazione ha raggiunto un tasso medio del 26%, e del 60% tra i giovani. Questo ha portato a un impoverimento di una parte importante della popolazione, con numerosi sgomberi e il più alto indice di suicidi in Europa. Tutto questo sacrificio inumano è servito solo ad avvicinarsi all’equilibrio fiscale, e ora la Grecia dovrebbe raddoppiare queste misure di austerity e questi sacrifici per arrivare, in un paio di anni, al 3% dell’avanzo primario, cosa che le darebbe la possibilità di ammortizzare a goccia a goccia un debito che a questo ritmo, nel migliore dei casi, richiederà cinquant’anni per essere cancellato. Questo debito è impagabile, e tutti lo sanno, solo che prima che venga dichiarato l’inevitabile default vogliono impadronirsi del patrimonio greco obbligando i greci a privatizzarlo, in cambio di 50.000 milioni di euro che andrebbero direttamente a cancellare una parte del debito. Ossia, la strada che il governo greco ha davanti a sé, accettando le richieste della Troika, è quella di tormentare il proprio popolo con nuove restrizioni e svendere tutti i beni dello Stato, ma più tardi si arriverebbe in ogni caso al default, e quindi a un’uscita forzosa dall’euro.

La Grecia ha continue scadenze da saldare per i diversi rifinanziamenti dell’enorme debito, e siccome non può pagarle col suo bilancio, deve rifinanziarle permanentemente con pacchetti di aiuti della Troika, e quest’aiuto in cambio di maggiori aggiustamenti e tagli. Se non accettasse le misure di austerity, la Troika non rifinanzierebbe il debito e alla prima scadenza non mantenuta la Grecia andrebbe in default. Se cadesse in default, non riceverebbe altri fondi e quindi le sue banche non avrebbero liquidità, poiché gli euro non vengono stampati dalla Grecia ma dalla BCE, e di fronte a questa possibilità ci sarebbero corse agli sportelli per ritirare i fondi, e ben presto il governo dovrebbe cominciare a pagare le pensioni e i salari pubblici emettendo buoni, che in pratica sarebbero una nuova moneta. Ossia, sarebbe un’uscita dall’euro di fatto, per quanto non prevista dall’UE. Questa situazione è quella che stava per prodursi negli ultimi giorni, quando il governo ha imposto il cosiddetto corralito(1) e le restrizioni per ritirare fondi dalle banche e Tsipras ha dovuto quindi rinegoziare il nuovo accordo sotto ricatto, finendo per capitolare per timore di conseguenze peggiori, nonostante il risultato del referendum. Probabilmente Tsipras credeva che con l’appoggio del referendum, nel quale il popolo greco aveva votato per il No all’austerity, avrebbe avuto maggiore potere negoziale con la Troika e che questa avrebbe reso più flessibile la sua posizione, ma è successo il contrario.

In realtà, già prima del referendum il governo greco aveva dichiarato che la sua intenzione non era quella di uscire, ma di ammorbidire le manovre del nuovo accordo. La debolezza di questa posizione era che i greci, se non erano disponibili a uscire dall’euro, non avevano un piano B nel caso che la Troika non fosse diventata più flessibile nelle sue richieste, perché l’unico modo di rimanere nell’euro era con l’aiuto finanziario della Troika. E quest’ultima ha imposto le sue condizioni.

È chiaro che la situazione è molto delicata e non esiste nessuna via d’uscita facile; qualunque via d’uscita avrà il suo costo e sarà alto. Molti comparano la situazione della Grecia con quella attraversata dall’Argentina tra la fine del 2001 e il 2002, ed effettivamente ci sono molti punti in comune. L’Argentina, in quel periodo, aveva da molti anni un regime di convertibilità in cui un peso equivaleva a un dollaro; questo aveva provocato una sopravalutazione del peso che faceva salire enormemente il prezzo delle esportazioni e scendere quello delle importazioni, con la conseguenza che la bilancia commerciale era deficitaria e si sosteneva grazie all’indebitamento e al deficit fiscale. Arrivò il momento in cui il debito divenne impagabile, non si ottennero nuovi finanziamenti per rifinanziarlo, si generò una corsa agli sportelli bancari e di cambio e si adottò allora il corralito; in seguito si cadde in default e fu necessario abolire la convertibilità, con la conseguente svalutazione della moneta del 300%. La crisi sociale fu enorme, ci fu un impoverimento di gran parte della popolazione, aumentò la disoccupazione e ci furono molte istanze legali quando i depositi e i debiti e crediti, che erano denominati in dollari, furono convertiti in pesos. Ma dopo un anno l’Argentina cominciò a riprendersi; grazie a quella svalutazione si risanò l’industria sostituendo le importazioni, si riattivò il mercato interno e crebbero le esportazioni che apportavano valuta.  Nel 2005, dopo la ripresa e la crescita dell’economia ad alti tassi, il governo rinegoziò il debito in default, con una remissione di quasi due terzi del debito.

Di certo Tsipras conosce questo esempio, che viene citato anche dai Premi Nobel per l’economia, Krugman e Stiglitz, quando criticano l’austerity che viene imposta alla Grecia e dicono, come fa Krugman, che la soluzione è l’uscita dall’euro. Ma bisogna ricordare anche un’altra cosa per comprendere i dubbi di Tsipras: il presidente Kirchner, che guidò il periodo della ripresa e della crescita argentina dal 2003, in certo qual modo si trovò il cammino spianato rispetto a decisioni economiche drastiche. Prima del suo arrivo, infatti, fu un altro presidente che si vide costretto a imporre il corralito sui depositi bancari e dovette dimettersi in mezzo al caos sociale; un secondo presidente dovette dichiarare il default e dimettersi pochi giorni dopo; e fu un terzo presidente che decise l’uscita dalla convertibilità e finì per andar via con una pessima immagine pubblica, pur rimanendo al potere un anno e mezzo per consegnarlo poi a Kirchner. Cioè, la crisi si divorò tre presidenti, nonostante il fatto che le misure prese non avessero alternativa, perché il paese era rimasto senza valuta per pagare il debito e sostenere la convertibilità. Per Tsipras è difficile capire se finirà coll’essere il capo di governo che conduce la Grecia alla ripresa rifiutando le richieste della Troika e uscendo dall’euro, o se il caos iniziale finirà per divorarlo e quando la Grecia vedrà la luce alla fine del tunnel, egli sarà ormai un cadavere politico e al governo ci starà qualcun altro, magari di un altro partito politico.

D’altra parte, possiamo dire che la situazione economica della Grecia è persino peggiore di quella argentina di quegli anni; non solo perché il debito è maggiore, sia nominalmente che in relazione al suo PIL, ma soprattutto perché la Grecia non ha il potenziale produttivo che aveva l’Argentina, con un'industria che lavorava al 30% della sua capacità a causa del boom d’importazioni sotto il regime di convertibilità, e che si risollevò come una molla all’uscita da quel regime. E perché l’Argentina ha anche una grande capacità di esportazione di beni alimentari.

Quindi, parlando da un punto di vista economico, la ripresa della Grecia dopo un’ipotetica uscita dall’euro sarebbe sicuramente più lenta di quella argentina, ma con un miglioramento sostanziale rispetto alla situazione attuale e, soprattutto, con un futuro pieno di possibilità.

D’altra parte, bisogna anche dire, continuando con i confronti, che la situazione geopolitica della Grecia presenta maggiori vantaggi rispetto alla situazione dell’Argentina nel boom della crisi. In quel momento il paese sudamericano era molto isolato, soprattutto per opera delle grandi potenze, e poté contare solo sull’appoggio di alcuni paesi dell’America Latina; fu quindi obbligata a resistere e crescere solo con le proprie risorse. La Grecia, invece, potrebbe ricorrere ad altre strategie di politica internazionale per conseguire un’uscita dall’euro più ordinata. Sebbene l’UE abbia appena approvato l’indurimento delle pretese di austerity, ci sono posizioni diverse tra i suoi membri e dentro la stessa Troika, e il FMI stesso sta dicendo che bisognerebbe ristrutturare il debito perché è impagabile. E fuori dell’eurozona, la Russia ha già manifestato la sua offerta di appoggio alla Grecia, e questo potrebbe estendersi anche alla Cina. Anche gli USA stanno molto all’erta perché ritengono che le richieste fatte alla Grecia siano impraticabili, ma sono preoccupati soprattutto perché questo paese occupa una posizione strategica per la NATO e non sarebbero felici di un suo avvicinamento alla Russia. Vogliamo dire, con questo, che l’uscita dall’euro non sarà necessariamente il trauma che potrebbe essere se si trattasse di una fine forzata in un contesto di esplosione finanziaria. Nel caso dell’Argentina, già nel 1998 c’erano indicatori di ciò che poteva accadere in futuro e il Partito Umanista fu l’unico a proporre un’uscita ordinata dal regime di convertibilità. Se fosse stata realizzata in tal modo, forse si sarebbe evitato il caos sociale del 2001 e 2002; si volle però insistere fino all’ultimo con quel regime impraticabile e l’uscita fu forzosa e tortuosa. Pensiamo che la Grecia sia in condizioni di elaborare una strategia politica cercando alleati che la appoggino a livello finanziario a creare una riserva di valute forti che le permetta di tornare alla dracma senza cadere in un’iper-inflazione.

Ci sono altre soluzioni o solo l’uscita dall’euro?

Come abbiamo detto prima, il problema fondamentale è che l’integrazione europea non è stata disegnata a misura dei popoli ma a misura dei capitali finanziari e delle multinazionali. Pertanto è molto difficile che dall’UE sorgano altre soluzioni. Ma se rifletteranno e decideranno di riformulare i paradigmi della regione, ci saranno altre strade praticabili, non solo per la Grecia ma anche per gli altri paesi in crisi. Ci sono già state proposte di emissioni di eurobond per ristrutturare e rifinanziare i debiti dei paesi con procedimenti di ingiunzione, ma sono state respinte. La Germania e i suoi falchi alleati nell’UE si oppongono a che la BCE generi un’espansione monetaria per finanziare il riscatto dei debiti, con la tesi che in tal caso non si raggiungerebbero le mete del 2% massimo di inflazione che pretendono per l’eurozona. Alcuni affermano che la Germania teme un incremento dell’inflazione a causa della traumatica esperienza iper-inflazionaria vissuta dopo la prima guerra mondiale e che favorì la nascita del nazismo. Ma questa tesi è poco credibile perché si sta parlando di qualcosa che è successo quasi un secolo fa in una congiuntura completamente differente. L’unica ragione che spiega tanta preoccupazione a utilizzare una politica monetaria più espansiva, che al massimo potrebbe far salire temporaneamente di due o tre punti l’inflazione nell’eurozona, è la protezione che si vuole offrire ai settori con attivi finanziari importanti che si svaluterebbero.

Dalle recessioni non si esce con maggiori restrizioni e austerità, si esce con politiche attive e la BCE deve compiere il suo ruolo assorbendo una parte importante dei debiti dei paesi e finanziando gli investimenti e il consumo per incentivare la ripresa economica. Questo avrebbe come costo una svalutazione dell’euro che porterebbe a socializzare le perdite tra paesi debitori e paesi non debitori, perché la messa a fuoco dovrebbe essere la solidarietà tra i membri dell’UE e non il calcolo meschino. Ma sembra che il paradigma della solidarietà non sia il baluardo in questa conformazione regionale, e quindi i paesi con problemi devono risolverli con i propri mezzi. E per ora è sotto questo condizionamento che la Grecia deve operare le sue scelte, che sono semplicemente: o l’agonia dell’austerity, che finirà comunque, presto o tardi, con un’uscita forzosa, o un’uscita volontaria nel modo più ordinato possibile.
Paul Krugman (premio nobel per l’economia) che prima dubitava della convenienza per la Grecia di uscire dall’euro, ha dichiarato recentemente che non c’è altra strada e ha aggiunto che, tenendo in considerazione la miseria che i greci stanno patendo, alla Grecia conviene uscire dall’euro per avere almeno i benefici di quest’uscita, perché l’inferno ce l’hanno già ora.
In realtà non si tratta solo del fatto che la Grecia possa cadere in default per l’impossibilità di pagare il debito e che questo porti all’uscita dall’eurozona, non potendo più ricevere altri euro dalla BCE. E non si tratta solo del fatto che la Grecia non voglia più pagare il suo debito con la fame del suo popolo e per questa decisione debba abbandonare l’eurozona. Si tratta anche del fatto che uno dei principali fattori di indebitamento della Grecia è aver tenuto una moneta comune con altre nazioni con le quali non può competere. L’uscita dall’euro, indipendentemente dalla situazione del debito, permetterà alla Grecia di migliorare la sua bilancia commerciale, di aumentare le sue esportazioni e potenziare ancor di più il turismo, generando maggiori entrate e maggiore occupazione.

Potremmo anche domandarci se l’uscita dall’euro sia l’unica strada possibile per migliorare la competitività. Torniamo allo stesso punto. Se l’Eurozona fosse costruita sulla solidarietà, il ruolo della BCE dovrebbe essere quello di portare avanti politiche espansive, non solo per moderare l’indebitamento di alcuni paesi, ma anche per incentivare lo sviluppo. E tale sviluppo dovrebbe essere pianificato nell’ambito dell’UE, mettendo la priorità nell’accelerazione dei paesi meno sviluppati. E dovrebbe essere in quest’ambito e in questa dinamica che si dovrebbero fare le correzioni di bilancio che aiutino la Grecia a diminuire il peso dello stato sull’economia, perché in un’economia in sviluppo è possibile diminuire l’impiego pubblico e spostarlo nel settore dell’economia privata senza danneggiare il livello occupazionale. Il problema sarebbe così preso d’assalto da vari lati e si potrebbe migliorare la competitività senza uscire dall’euro. Ma questa è un’aspirazione che non corrisponde alle attuali priorità dell’UE.
In definitiva, sarebbe certamente possibile risolvere il tema dell’indebitamento della Grecia senza uscire dall’Eurozona. E le asimmetrie dello sviluppo potrebbero essere senz’altro compensate in modo che la moneta comune non porti allo scompenso della bilancia commerciale di alcuni paesi. Ma questa possibilità è molto lontana oggi dalle intenzioni della maggior parte dei membri dell’UE, e quindi la strada migliore che rimane alla Grecia è l’uscita.

Quali conseguenze avrebbe la Grexit?

È chiaro che qualunque decisione sarà difficile e porterà con sé problemi da risolvere. Ma con l’uscita dall’euro ci sarà una luce alla fine del tunnel, mentre nella strada delle ristrutturazioni crescenti si vede solo l’abisso.
Uno dei primi problemi della Grexit è la corsa alla fuga dei capitali (negli ultimi nove mesi sono andati via già 42.000 milioni), e si suppone che se la Grecia tornasse alla dracma ci sarebbe un’esplosione, perché tutti correrebbero in banca per ritirare i loro euro. È sicuramente vero, ma per questo ci sono i meccanismi di controllo di entrata e uscita delle valute, che possono essere implementati come misure d’emergenza come hanno fatto, e fanno, altri paesi. Sicuramente ci sarà ad ogni modo una fuga, e sicuramente ci saranno rimostranze e proteste di migliaia di correntisti per le restrizioni. Nei primi tempi ci saranno forti turbolenze.
Un altro problema da risolvere è quello logistico, giacché non si tratta solo della svalutazione di una moneta già esistente ma di coniarne una nuova, farla arrivare ovunque, adeguare sistemi e sportelli; una complessità logistica che si protrarrà per i primi mesi e li obbligherà a una transizione tortuosa.

Un altro conflitto saranno i debiti dei greci con i greci e dei greci con l’estero. All’interno ci sarà una forte protesta dei creditori, perché chi doveva loro euro, ora pagherà in dracme, e quindi il credito si ridurrà. E chi ha debiti con l’estero, dovrà risparmiare molto per poterli ripagare, perché gli stipendi sono in dracme mentre i debiti continuano a essere in euro, oppure smetterà di pagare fino a che i prezzi relativi non si aggiustino.
La Grecia importa molti beni, incluso alimenti e farmaci, e la sua bilancia commerciale è deficitaria, quindi con l’uscita dall’euro ci sarà un rincaro dei prodotti importati e una diminuzione del potere d’acquisto della popolazione in relazione al resto dell’eurozona. Questo impoverimento relativo potrà essere certamente ridistribuito in diversi settori, man mano che il governo maneggia il suo bilancio in dracme assistendo i più indifesi. A differenza della situazione odierna, nella quale chi rimane disoccupato sopporta la parte maggiore dei sacrifici, la svalutazione ridistribuirà meglio il carico e l’impoverimento relativo dovrà essere assunto tra tutti finché l’economia non comincerà a riprendersi e a migliorare, e allora i greci risaneranno la situazione.
Le conseguenze positive dell’uscita dall’euro saranno importanti, anche se i suoi frutti arriveranno in un secondo momento. La Grecia sarà un paese con costi relativi più bassi, quindi il suo turismo si potenzierà ancora di più, così come l’esportazione di alcuni prodotti, e questo porterà un ingresso importante di valuta, che aiuterà a equilibrare la bilancia commerciale e stabilizzerà il tasso di cambio. Ci sarà maggiore occupazione nelle aree legate al turismo e all’esportazione e ci sarà l’opportunità di rimpiazzare alcune importazioni.
Siccome si presume che se la Grecia uscirà dall’euro, è perché sarà caduta in default, allora non potrà occuparsi per lungo tempo nemmeno del suo debito estero, cosa che le porterà problemi di finanziamento esterno e alcuni conflitti politici, ma almeno si sarà arrestato il salasso attuale. I greci dovranno vivere con i propri mezzi, ma non dovranno fare altre riforme per ammortizzare debiti impagabili. E ovviamente la sovranità monetaria e il maneggio della propria politica economica permetteranno al governo di adeguare il bilancio pubblico allo sviluppo; dovranno quindi migliorare il loro sistema fiscale e sanare l’amministrazione pubblica.
Potremmo sintetizzare dicendo che oggi i greci si stanno impoverendo poco a poco e progressivamente, che la tendenza a continuare così li porterà a stare sempre peggio e che non riusciranno in ogni caso a pagare il debito, per cui dovranno privatizzare tutto il loro patrimonio e quando non avranno più niente, cadranno in default e usciranno dall’euro forzosamente, ma in condizioni ancora peggiori di quelle attuali. Se invece escono oggi dall’euro, attraverseranno un periodo difficile, ma a poco a poco si riprenderanno e poi cresceranno di nuovo, recuperando l’occupazione e il livello di vita, forse non il livello di vita di cui alcuni hanno usufruito grazie all’indebitamento, ma sì un livello migliore di quello che hanno oggi con l’austerity.

1 - Corralito è il termine con il quale fu denominata durante la crisi economica argentina la limitazione della quantità di denaro in contanti che poteva essere ritirata da conti correnti e casse di risparmio imposta dal governo di De la Rua nel dicembre 2001, e che durò per quasi un anno. In seguito a tale avvenimento, il termine è stato adottato da tutti i paesi di lingua spagnola e non.
               
Guillermo Sullings, 22/07/2015
Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Vasciminno
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